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Che sia ALITALIA o che sia ITA alla fine paga sempre il contribuente

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di MATTEO CORSINI

Alitalia in amministrazione straordinaria aveva messo in vendita il marchio per non meno di 290 milioni. Alla fine l’ha venduto alla newco ITA per 90 milioni, constatato il disinteresse delle altre compagnie. Effettivamente si tratta del marchio di una società reduce da decenni di perdite pressoché ininterrotte e fallimenti ricorrenti. Il buonsenso induce a ritenere che sia normale che non ci sia la fila per aggiudicarselo.

A ITA il marchio Alitalia interessava se non altro per non dover cambiare fin dall’inizio le divise del personale e l’allestimento degli aerei. Il valore teorico di 290 milioni derivava da una perizia richiesta dai commissari straordinari di Alitalia. Per evitare di essere accusati poi di avere svenduto il marchio, gli stessi commissari hanno chiesto una revisione della perizia, che alla fine ha reso “corretto” il prezzo della transazione.

Gianni Dragoni, “alitaliologo” del Sole 24 Ore, ha rivolto alcune domande in merito al perito, ossia a Giovanni Fiori, professore ordinario di economia aziendale alla Luiss. Il quale ha spiegato: “I commissari mi hanno chiesto di indicare il valore di mercato. Allora l’idea era che la vendita fosse aperta a tutti, anche ai fondi”.

Aggiunge Fiori: “Sono partito dai ricavi di Alitalia, circa 2,8 miliardi all’anno. La royalty l’ho presa abbastanza bassa, un tasso dell’1,5% annuale, perché legata soprattutto ai ricavi sul mercato nazionale. Così ho stimato 42 milioni l’anno. Poiché per mantenere il marchio bisogna sostenere delle spese, pagare le tasse, il valore si riduce a un flusso netto di 29 milioni l’anno. Quest’importo va attualizzato, a un tasso dell’8 per cento. Ho ottenuto un valore lordo di 500 milioni, in linea con una valutazione di Brand Finance, che nel 2017 aveva valutato il marchio sui 445 milioni di dollari. Poi ho abbattuto il valore lordo, perché è prassi, quando deve essere venduto in un’asta fallimentare, di ridurlo del 50%, così si arriva a 290 milioni”.

Poi viene il passaggio più interessante, a mio parere: “Successivamente l’aver limitato la possibilità di acquisto alle compagnie aeree ha reso più complessa l’asta. Se nessuno lo compra e nessuno fa la compagnia di bandiera il valore lo mantiene. Ma se c’è qualcuno che vuole fare la compagnia di bandiera il marchio perde valore, perché quei ricavi li fa la nuova compagnia”.

Ora, pur prescindendo dai risultati fallimentari delle aziende che hanno usato il marchio Alitalia nel corso dei decenni, mi sembra logoco che l’acquirente finale di quel marchio dovesse essere una compagnia aerea, e non un pastificio o un’acciaieria. Per di più, date le caratteristiche estetiche del marchio, una compagnia aerea con focus sull’Italia. Ciò detto, anche se nessuno facesse la compangia di bandiera, non vedo come il marchio potrebbe mantenere valore se non utilizzato, evidentemente perché ritenuto non idoneo a migliorare i profitti aziendali.

Alla fine, dietro richiesta di un parere urgente da parte dei commissari per riuscire a vendere il marchio a ITA per 90 milioni, Fiori ha riconosciuto che, se non associato al vettore nazionale, “il valore dello stesso marchio sarebbe destinato, nell’arco di un orizzonte temporale di breve-medio periodo, ad assumere un valore pari a zero perché non più in grado di generare ricavi”.

IndubiIamente quella della valutazione aziendale (o di singoli asset, a maggior ragione se intangibili) non è una scienza esatta. Resta il fatto che le ipotesi su cui si basava la stima di 290 milioni erano per lo meno molto ottimistiche, per non dire irragionevoli.

Nel caso di Alitalia non ci si fa mancare niente. Unica consolazione: per i pagatori di tasse cambia poco, dato che gli oneri di entrambe le compagnie sono a loro carico.  Magra consolazione, peraltro.

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