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Ci mancava il formaggio razzista

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di MATTEO CORSINI

Non ho mai sopportato le persone politically correct, perché sempre liberticide e spesso anche ipocrite. Quindi mi risulta particolarmente indigesta l’ultima ondata che sta raggiungendo vette inviolate di ridicolo, anche se mi rendo conto che servirebbe un gesto eroico, da parte di un’azienda, per opporsi alle stupide pretese di organizzazioni che vedono razzismo ovunque.

Da ultimo, la multinazionale canadese Saputo (i cui proprietari sono di chiare origini italiane; Joey Saputo è anche proprietario della squadra di calcio del Bologna) ha deciso di cambiare il nome a un formaggio australiano assecondando le proteste che da anni porta avanti un imprenditore aborigeno, secondo il quale il nome del prodotto sarebbe razzista.

Il formaggio australiano incriminato si chiama(va) Coon, che pare sia un termine dispregiativo per fare riferimento agli aborigeni. Ma non c’era nessun riferimento agli aborigeni, dato che il nome del prodotto derivava dal fondatore della ditta che lo produce, ossia Edward Coon.

Capisco che, in nome del business, i Saputo abbiano deciso di cambiare nome al prodotto. Trovo però penosa la dichiarazione rilasciata:

  • “Crediamo di condividere la responsabilità di eliminare il razzismo in tutte le sue forme e che questo sia un passo importante da compiere, per sostenere tale impegno, dopo un esame attento e diligente di una situazione delicata.”

Già mi sembrava esagerata la scelta di Nestlè di cambiare nome a un paio di prodotti, Red Skins e Chicos, per non turbare le sensibilità dei discendenti dei nativi americani e delle persone di colore.

Ma se si arriva addirittura a cambiare il nome di un prodotto che fa riferimento al fondatore dell’azienda produttrice non mi resta che pensare che al peggio non ci sia proprio limite.

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