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Ci prospettano un orizzonte di povertà (in)sostenibile

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di RAFFAELLO SAVARESE

Nel 1992 Francis Fukuyama dava alle stampe il suo saggio più famoso: La fine della Storia. In esso, il politologo americano teorizzava che il progresso dell’umanità verso un liberalismo democratico, pur con dinamiche diverse, da paese a paese, avesse raggiunto il suo traguardo e il suo culmine: un cammino unidirezionale e ormai irreversibile.

In effetti, l’epoca contemporanea, ossia il periodo dalla Rivoluzione francese in poi, è stata segnata dalla maturazione della consapevolezza del diritto naturale e dalle conquiste della libertà, in più parti del mondo: la sconfitta delle dittature, la caduta del comunismo. Con il muro di Berlino cadeva la cortina di ferro e la contrapposizione tra i blocchi. Nel 1994 la Russia entrava nella Pfp, la partnership con la Nato: quest’ultima apriva uffici a Mosca e la Russia era invitata a partecipare alle riunioni dell’alleanza atlantica. Un’era permanente di pace e libertà sembrava essersi aperta.

Purtroppo, oggi, dopo trent’anni, quella traiettoria sembra aver preso un’altra direzione: ciò che si prospetta, parafrasando le parole di Fukuyama, più che l’apice della Storia, è la fine della Libertà.

Perché l’individuo è sempre meno motore e centro del progresso umano; non è più visto come essere responsabile e in piena potenza di esprimere il proprio sviluppo, bensì un mezzo per plasmare la società secondo un disegno etico a lui estraneo. L’egualitarismo marxista che pensavamo sconfitto dalla Storia, riaffiora, come un fiume carsico, in altra forma, più subdola, più pervasiva. Il nemico è sempre lo stesso: la libertà individuale e il laissez-faire nei rapporti economici e sociali, la ricerca spontanea e naturale del proprio benessere. Ogni vero o presunto male sarebbe riconducibile ad essi.

Così, con tortuosi ragionamenti, la recente pandemia sarebbe il frutto dei danni inferti dal nostro modello di sviluppo alla natura. Lo disse anche Mario Draghi, al suo insediamento. Covid e ambiente: una correlazione razionale quanto un dogma religioso. Teoria ancora più arcana se aggiungiamo i collegati precetti della lotta alle disuguaglianze e del sostegno delle diversità.

Il mantra della transizione verso modelli eco-socio-sostenibili sembra ormai scolpito nella pietra: il mercato va corretto, gli investimenti privati reindirizzati, i consumi privati scoraggiati e omologati. Il nuovo millenarismo – che, nei secoli bui del Medioevo, teneva sottomesse e ubbidienti le masse – oggi veste l’abito del catastrofismo climatico. Con i suoi dogmi, i suoi diktat etici, le sue verità assolute e la sua smania di vigilare sul pensiero corretto, le nostre società democratiche ci paiono assomigliare, sempre più spesso, alla Cina di Xi Jinping. Si afferma l’idea che la libertà sia un bene a somma zero: per darla agli esclusi e alle minoranze bisogna accettare nuove leggi che riducano la nostra. Non è così: la legge non può dare la libertà, può solo toglierla o restituire quella che ha levato in precedenza! I grandi temi si dibattono al di fuori delle assise elettive: nel Bilderberg, nella Trilateral, nel World Economic Forum.

L’esclusivo e riservatissimo clubon invitation only – con un ticket di ingresso fino a 600mila franchi, organizzato da quel Klaus Schwab, ricevuto come un capo di stato, da Draghi, a Palazzo Chigi. Perché? Quello del “non avrete nulla e sarete felici”. Magari se non avremo nulla, saranno felici loro. Il refrain delle parole d’ordine “sostenibilità, inclusività, resilienza” sintetizza la visione di un mondo egualitario, anodino, vegano, a bassa energia, nel quale ogni umana attività sarà dosata, omologata e controllata. Da ciò che si mette a tavola, agli acquisti, alla mobilità, al vestiario, al vocabolario e, soprattutto, alle opinioni consentite. Un orizzonte di povertà (in)sostenibile, non solo economica. La latitudine delle nostre libertà si prospetta sempre più angusta. Ma il pauperismo non basta: Il Great Reset, di cui si è fatto araldo anche Carlo III d’Inghilterra, ha bisogno del controllo dell’informazione, della sordina al dissenso.

La repressione del pluralismo delle opinioni, per affermarne una sola: quella politicamente corretta. La voce delle élite tecnocratiche deve sovrastare il brusio della pubblica opinione perché, ad essa, difetterebbe la capacità critica per discernere il vero dal falso. Che bisogno c’è della libertà di opinione, se l’arbitro del bene e del male è l’impersonale Leviatano? La narrazione degli eventi della pandemia, del conflitto ucraino e del catastrofismo climatico è quasi uniforme su tutti i Media. Essa non ammette gradazioni di opinioni, dubbi, distinguo: la verità è una, assoluta e indefettibile. I sicofanti della narrazione mainstream ne sono detentori e guardiani e, come in una regola religiosa, vedono il dubbio come un atto di superbia e apostasia verso l’ortodossia dominante.

Chi non si adegua è marginalizzato, irriso, censurato. Diceva Arthur Schopenhauer: “Ciò che il gregge odia di più è chi la pensa diversamente; non tanto per l’opinione in sé, ma per l’audacia di pensare da sé, qualcosa che esso non sa fare”.

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