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Con una crisi di vasta portata, non c’è soluzione che salvi i vostri depositi

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02_bailoutdi MATTEO CORSINI

“In Italia la tutela del risparmio è sancita dall’articolo 47 della Costituzione, che è stato costantemente applicato, per quanto riguarda i depositi, riconoscendo loro una protezione piena, essendo essi un “risparmio inconsapevole” rispetto al “risparmio consapevole” proprio degli azionisti, per esempio, e delle altre forme di investimento finanziario. E’ perciò inammissibile che si affidi a una normativa europea il potere derogatorio di una norma costituzionale, con riferimento al modo in cui quest’ultima, a partire dal Dopoguerra, è stata intesa”. Angelo De Mattia, a lungo in Banca d’Italia e oggi assiduo commentatore su MF, è contrario a quella parte della norma europea sul “bail-in” relativa al coinvolgimento dei depositi superiori a 100mila euro. Ho già scritto in altre occasioni sul “bail-in”, ma penso valga la pena tornare a occuparmene.

In sostanza, a partire dal 1° gennaio 2016, quando una banca andrà in crisi, prima di coinvolgere i contribuenti (“bail-out”), azionisti, creditori e depositanti oltre i 100mila euro dovranno assorbire perdite fino all’8 per cento delle passività totali. Chi si oppone al “bail-in” solitamente non ha nulla da eccepire riguardo alle perdite che toccherebbero ad azionisti e obbligazionisti, mentre è contrario a coinvolgere i depositi di qualsivoglia importo.

Non tirerei in ballo la Costituzione, non da ultimo perché credo che tutelare il risparmio non possa coincidere col garantire i risparmiatori dall’andare incontro a perdite. D’altra parte è lo stesso trattamento normativo dei depositi a generare problemi.

Oggi esiste un fondo di tutela dei depositi, a cui aderiscono le banche, che garantisce fino a 100mila euro per ogni individuo su ogni banca presso i quali abbia un deposito. Come spesso accade, si tratta di una foglia di fico, dato che la contribuzione avviene ex post e che nel caso in cui ad andare in crisi sia una banca di grandi dimensioni o l’intero sistema, il fondo semplicemente non è in grado di garantire tutte le somme che teoricamente copre. La sua funzione, più che altro, è quella di far credere ai depositanti che possono dormire sonni tranquilli.

De Mattia ricorda che dalla legge bancaria del 1936 in poi, nessun depositante in Italia ha perso alcunché. Solitamente in caso di crisi di una banca, la Banca d’Italia sollecitava la sua acquisizione da parte di un intermediario di maggiori dimensioni; in casi abbastanza rari e di fronte a crisi di banche molto piccole, si andava alla liquidazione coatta amministrativa, ma i depositanti effettivamente non subivano perdite, anche oltre 100mila euro. Più di recente il fondo di tutela dei depositi è anche stato coinvolto nel salvataggio di alcune banche come finanziatore o azionista. E’ quindi vero che finora i depositanti (e gli obbligazionisti) non hanno subito perdite nominali.

Ciò non toglie che un fondo di tutela dei depositi non è e mai sarà in grado di far fronte a una crisi di vasta portata, né per somme fino a 100mila euro per depositante, men che meno per importi superiori.

Va anche detto che alcune distinzioni normative sono puramente arbitrarie. Un deposito a vista è equiparato, ai fini della tutela, a un certificato di deposito fino a 5 anni di scadenza. Dubito, però, che vi siano differenze sostanziali tra il titolare di un certificato di deposito a 5 anni e quello che detiene un’obbligazione senior a 5 anni emessa dalla stessa banca. Eppure il primo è “protetto” fino a 100mila euro, il secondo no.

Occorrerebbe quindi limitare la definizione di deposito alle somme sulle quali il depositante mantiene contrattualmente la disponibilità a vista. Ed è qui, in ultima analisi, che sorgono i problemi. Un autentico contratto di deposito dovrebbe prevedere l’indisponibilità di quelle somme da parte del depositario, il quale dovrebbe limitarsi a custodirle e a renderle disponibili a richiesta del depositante. Ovviamente in questo caso il depositante pagherebbe il depositario per il servizio ricevuto. Al contrario, le norme (in Italia e altrove) rendono legale l’utilizzo da parte delle banche depositarie del denaro depositato a vista presso di esse. Per questo i depositi a vista sono solitamente remunerati (a parte in tempi di politiche monetarie particolarmente espansive come quelli attuali). Le banche, quindi, possono legalmente utilizzare le somme ricevute in deposito a vista per erogare credito, salvo detenere una riserva di liquidità (peraltro minima) presso la banca centrale. Ne consegue che, sulle stesse somme, le banche concedono il diritto di utilizzo a vista sia al legittimo proprietario (il depositante) sia a soggetti da esse affidati (i quali pagano un interesse sulle somme ottenute a credito). E’ questo sistema di riserva frazionaria che rende intrinsecamente insolventi le banche e che fa dei fondi di tutela dei depositi delle autentiche foglie di fico.

Invece di invocare una protezione dei depositi di qualsiasi importo da parte del contribuente (perché se si esclude il “bail-in” alla fine è il contribuente a sopportare le perdite), sarebbe quindi necessario in primo luogo limitare la definizione di deposito alle somme ritirabili a vista; in secondo luogo, prevedere un coefficiente di riserva pari al 100 per cento delle somme depositate a vista. In altri termini, le banche non dovrebbero fare altro che conservare le somme depositate a vista dai loro clienti, facendosi remunerare per il servizio.

Va da sé che l’espansione del credito sarebbe molto minore rispetto a quanto sono abituati a invocare gli oppositori del “bail-in”, ma solo in quel modo vi sarebbero una autentica tutela del diritto di proprietà dei depositanti e una maggiore solidità delle banche.

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1 COMMENT

  1. Magari dico una scemenza ma mi pare che al momento l’unico modo per costringere una banca ad avere una riserva pari al 100% di quanto le depositiamo sia darle 100 e poi chiedere l’emissione di un circolare di 100 intestato a noi che ci teniamo in tasca.

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