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Contro il virus keynesiano non c’è vaccino che tenga

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di MATTEO CORSINI

Con almeno 100 miliardi di deficit aggiuntivo per far fronte alla pandemia già disposti dal Governo e approvati dal Parlamento negli ultimi mesi, che porteranno il deficit attorno a 10.8 punti di Pil secondo le stime (mai pessimiste) del MEF, ci si aspetterebbe quanto meno che coloro i quali da anni stanno lamentandosi di una presunta austerità avessero messo in lockdown queste loro esternazioni.

Invece no. Il MEF prevede che il deficit sarà al 7% del Pil nel 2021 e al 4.7% nel 2022, eppure questa sarà austerità, secondo Gustavo Piga. Piga nota che, stando alla NADEF, i trasferimenti a fondo perduto provenienti dal Recovery Fund saranno “pari a 14, 20 e 28 miliardi nel triennio a venire: 0,8%, 1% e 1,5% di Pil circa”.

Con grande delusione, nota poi che l’effetto “stimato, ancora per il triennio, di crescita economica in più è pari rispettivamente a 0,3%, 0,4% e 0,8%, con un moltiplicatore della crescita da parte della spesa pubblica inferiore dunque allo 0,5.”

Come mai il moltiplicatore non è stellare neppure nelle previsioni governative? Con grande acume, Piga realizza che “un valore così basso non può che voler dire che i fondi UE a fondo perduto non verranno tutti spesi là dove l’impatto è maggiore per la crescita, nell’accumulazione di capitale fisico ed immateriale, ma piuttosto in mille rivoli e trasferimenti.”

Ammesso che fosse possibile moltiplicare i pani e i pesci scegliendo gli investimenti pubblici giusti, Piga dovrebbe tenere presente che la maggioranza scricchiola, e che al più tardi nel 2023 ci saranno le elezioni politiche. Come stupirsi del fatto che i fondi saranno spesi “in mille rivoli e trasferimenti”?

Altro motivo di lamentazione è la destinazione dei “prestiti a tassi vantaggiosi: essi sono pari 11, 17,5 e 15 miliardi di euro”. Questi purtroppo “non andranno a finanziare nuovi progetti di investimenti ma a sostituire il finanziamento in deficit da parte del Tesoro di spese già previste. Effetto addizionale dunque nullo, se non per un minuscolo risparmio di spesa per interessi.” Anche in questo caso, tra l’altro moltiplicatori “molto bassi, evidenza che si spenderanno risorse in misure a basso impatto per l’economia, e quindi non in investimenti pubblici addizionali.”

In definitiva, “la posizione del Governo rimane molto restrittiva. Meno austera di qualche mese fa, ma pur sempre molto austera.” Il Governo ha perfino l’ardore di promettere di ridurre il deficit strutturale, “invece di confermare e stabilizzare il deficit al livello odierno per tutto il triennio e utilizzarne le risorse per fare investimenti pubblici e invece di dedicare le risorse europee a massimizzare i progetti che generano crescita.”

Posto che non è infondato ipotizzare che trattasi di promessa da marinaio, Piga conclude che il tutto è “frutto di quella promessa che il Governo italiano ha fatto, implicita nell’accordo sottostante al Recovery Fund, che l’Italia accede a questi fondi purché… si cimenti nell’austerità richiesta dall’Europa appena fuori dal Covid. Con una mano si dà, con l’altra si leva. Cosa si leva? La crescita. Una crescita economica prorompente che non solo avrebbe stabilizzato socialmente il Paese ma anche permesso di ridurre il rapporto debito-Pil ben di più del magro 6,5% previsto dal Governo (dal 158% al 151,5%).”

Aspettando di vedere dove sarà il rapporto tra debito e Pil alla fine del 2023 (e non mi stupirei se fosse superiore a 151,5%), credo che questa sia l’ennesima conferma del fatto che il virus della formula magica per trasformare le pietre in pane a mezzo deficit non teme la concorrenza del Covid-19.

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