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Coronavirus, legislazione e libertà

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di MATTEO CORSINI

Ho letto con interesse un articolo di Carlo Deodato, Presidente di Sezione del Consiglio di Stato, pubblicato sul Sole 24 Ore. L’articolo tratta della compressione della libertà che lo Stato ha progressivamente disposto da quando è iniziata l’emergenza sanitaria. Scrive Deodato:

  • “Tra le tante riflessioni sollecitate dall’emergenza sanitaria in atto, merita un’attenzione particolare quella rivolta a esaminare il rapporto tra i precetti normativi finalizzati a contenere l’epidemia e la sfera dei diritti fondamentali dei cittadini. Si tratta di una questione che si presta a essere scrutinata in una duplice prospettiva: la funzione delle leggi e il rapporto tra autorità e libertà.”

Argomento molto vasto e indubbiamente interessante.

  • “In ordine alla prima è sufficiente osservare che le leggi non servono a eliminare il male dal mondo (come creduto da alcuni), ma possono, al più, tentare di correggere, senza alcuna pretesa catartica, la fallace natura umana che, resta, nondimeno, affetta da un’innata debolezza e, per molti versi, non emendabile. Quanto alla seconda sovviene il mito di Antigone, magistralmente rappresentato da Sofocle. Antigone si rifiuta di obbedire alla legge che vietava la sepoltura del fratello, dichiarando di preferire di essere fedele «alle leggi non scritte, ma infallibili degli Dei»; alla coscienza che le comandava di rendere pietà al fratello defunto. Si tratta dell’antico conflitto tra legge scritta e legge morale, tra diritto positivo e diritto naturale (là dove confliggono tra loro). È un tema che suppone l’esistenza di un nucleo universale e immutabile di precetti insiti nella natura e comuni a tutti gli uomini (Aristotele diceva che «il diritto naturale è quello che ha ovunque lo stesso vigore»). Cicerone ammoniva che «da questa legge non possiamo essere sciolti ad opera del Senato o del popolo».”

Ogni qualvolta è stato utilizzato lo strumento legislativo per tentare di eliminare il male dal mondo (si pensi alle tante introduzioni di fattispecie penali per rincorrere il problema in quel momento ritenuto più importante) si sono prodotte conseguenze indesiderate, come è inevitabile in questi casi. Personalmente credo anche che non si debba tentare di correggere (in base a quale modello di perfezione a cui tendere, poi?) la natura umana a suon di leggi e decreti, bensì sanzionare i comportamenti che violano o minacciano di violare il diritto di proprietà su se stessi e sui beni di cui legittimamente si dispone. In altri termini, andrebbe affermato e tutelato il principio di non aggressione. Una tutela che difficilmente può essere ottenuta, peraltro, in sistemi in cui la legislazione e l’amministrazione della giustizia sono un monopolio statale, che per definizione viola il principio di non aggressione.

Deodato prosegue con le citazioni:

  • “Che accade se la legge scritta contrasta con quella naturale? Sant’Agostino affermava, al riguardo, che «non è da considerarsi legge una norma non giusta», mentre San Tommaso d’Aquino riteneva che se la legge positiva è contraria alla legge naturale «non è più legge, ma corruzione della legge». Secondo questa impostazione, quindi, nel conflitto tra legge positiva e legge naturale, prevale quest’ultima (in quanto l’unica “giusta”). Gli ordinamenti contemporanei si sono fatti carico, a volte, del problema, utilizzando l’istituto dell’obiezione di coscienza, che dovrebbe essere adottato in tutte le situazioni di conflitto tra un precetto positivo e un opposto ordine morale.”

Venendo ai giorni nostri:

  • “La contingente situazione di emergenza potrebbe proporre un numero crescente di fattispecie, del tutto inedite, di contrasto tra comandi dello Stato e imperativi della coscienza o libertà fondamentali. Ora, la Costituzione repubblicana è fondata, tra gli altri, sul principio personalista; quel principio per cui la persona preesiste allo Stato e quest’ultimo deve tutelare e promuovere i suoi diritti e non limitarli o conculcarli. In questa prospettiva di relazione tra l’autorità dello Stato e i diritti della persona, le misure restrittive decretate dal governo appaiono potenzialmente lesive della sfera incomprimibile delle libertà naturali dei cittadini (per come costituzionalizzate) e confliggenti con le istanze della coscienza individuale. Torna il dilemma di Antigone. Il cittadino può essere chiamato, ad esempio, a dover scegliere tra il rispetto del precetto governativo che gli impedisce di uscire di casa e l’imperativo morale di carità che gli “ordina” di visitare un congiunto in fin di vita, per rendergli, di persona, e non per telefono, il suo saluto estremo. È un’antinomia tra due imperativi (uno di una norma positiva; l’altro della coscienza).”

Si potrebbe osservare, dal punto di vista libertario, che la Costituzione non deve aver fatto un ottimo lavoro se davvero si pensa che sia lo Stato a dover tutelare e promuovere i diritti della persona. Ma non mi aspetto che un giurista che fa parte di un organo dello Stato abbia un approccio libertario.

Prosegue infatti Deodato:

  • “La frizione tra misure di emergenza e libertà naturali incide la carne viva della persona e dev’essere governata con una consapevolezza profonda di queste implicazioni. Ci si deve, quindi, astenere dal regolare i comportamenti dei cittadini per contenere la diffusione dell’epidemia? No. Si deve, allora, disobbedire alle norme vigenti? Assolutamente no. Le leggi vanno rispettate, come ammoniva Socrate prima di bere il veleno di una condanna iniqua. Ma, per evitare contrasti insanabili tra le regole restrittive e il nucleo intangibile delle libertà dei cittadini, chi decide le prime deve farsi carico di questa preoccupazione: che le norme non vengano percepite dai cittadini come ingiuste, sproporzionate e lesive, oltre ogni ragionevolezza, della loro aspirazione naturale alla libertà. Finché la compressione dei diritti viene compresa, e, quindi, accettata, come giustificata da esigenze straordinarie e imperative, l’equilibrio tra autorità e libertà resta preservato. Ove, invece, le prescrizioni limitative dovessero (cominciare a) essere vissute dai cittadini come arbitrarie, non solo non produrrebbero l’effetto voluto, ma susciterebbero quello opposto: oltre alla disobbedienza, la sfiducia verso l’autorità. E lo Stato è destinato a sgretolarsi se i cittadini perdono il rispetto per l’equità (e, quindi, per l’esigibilità) delle sue decisioni. Lo Stato è per l’uomo; non l’uomo per lo Stato.”

A me pare che prendere la parte di Socrate, salvo poi affidarsi alla ragionevolezza di chi detiene il potere sia, nella migliore delle ipotesi, una pia illusione. La fine stessa di Socrate lo dimostra, tra l’altro.

Quanto alla conclusione, pur non aspettandomi niente di diverso da un membro del Consiglio di Stato, direi che, purtroppo, lo Stato non può essere per l’uomo. Meglio: non può essere per tutti gli uomini. E’ per una parte di essi (quelli che John Calhoun definiva “consumatori di tasse”), ma inevitabilmente contro un’altra parte (i “produttori di tasse”).

Non potrebbe essere altrimenti, data la funzione redistributiva svolta mediante il monopolio dell’uso della violenza.

Ciò nondimeno, sarebbe già un passo avanti se l’avvocato del popolo, tra un messaggio agli italiani a orario telegiornale delle 20 e un decreto che impone di non uscire di casa, riflettesse sul contenuto del’articolo di Deodato.

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