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Crema serenissima: una storia bellissima di saggio governo

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di PAOLO BERNARDINI

Già ha parlato Ettore Beggiato, su queste pagine, della piccola, deliziosa mostra in chiusura a Crema, “Crema Veneziana” – con un sottile rimando culinario, almeno nel titolo: la “Crema fritta veneziana” è una ricetta preziosa, e assai ghiotta. Ma vale senz’altro la pena approfondire il discorso.

Crema fu dal 1449 al 1797, tre secoli e mezzo, una peculiare realtà geopolitica, nel frammentato (per fortuna) concerto dell’Italia della prima età moderna. Suddita di Venezia, con un rettore veneziano, Crema fu una vera exclave della Serenissima ed enclave del Ducato, per lungo tempo spagnolo, e prima visconteo e sforzesco, di Milano. Una strada sola la collegava, a Nord, col bergamasco sotto il Leone di San Marco anch’esso. Ma era circondata da territorio sforzesco appunto, poi francese, poi spagnolo, da inizio Cinquecento, con la sanzione definitiva a Cateau-Cambrésis nel 1559. Per questo era un’anomalia nell’Impero veneziano, intanto, prima di tutto, costiero e levantino, poi in generale legato da rapporti di confine sì difficili, ma non così aspri.

A tutta prima, è la storia di una città potenzialmente sempre sotto assedio, alle cui porte, non per nulla, si combatté l’epocale battaglia di Agnadello, nel 1509, che vide Crema divenire francese, per brevissimo tempo, e la Serenissima sul punto di crollare, con Giulio II a capo di una Lega che metteva insieme tutte le potenze europee, ansiose di diversi le spoglie della gloriosa repubblica. Ma lo stesso Giulio II dimostrò un’ambivalenza straordinaria, per certi aspetti un “odi et amo” verso la Repubblica, e le cose cambiarono presto. Agnadello non ebbe dunque tutte le conseguenze tragiche che avrebbe potuto avere. E alla Francia faceva comodo una ciliegia veneziana in mezzo ad una torta spagnola, salvo poi volersela pappare.

Non ostante la sua difficile posizione, Crema fiorì durante il periodo veneziano, preparata già alla libertà dalla Signoria dei Belzoni, che l’aveva retta per un ventennio ad inizio Cinquecento (battendo anche moneta). Una serie di esenzioni daziarie, di politiche liberali, di provvigioni per l’industria – il lino – soprattutto, fecero, per fare un paragone col mondo contemporaneo, Crema una sorta di Montecarlo, per Francia e Italia, o di Singapore per la Malesia, o di Hong Kong per la Cina. E poi fiorirono le arti – stupende le tele di Barbelli e Lucini, che riflettono la commistione di scuole che è quella del territorio, prima l’influsso lombardo, poi, lentamente, la gaiezza e leggerezza di quello veneziano, i musici trionfanti – e perfino il Carnevale, con figure in tutto degne di ricerca antropologica, come il “Gagét col suo ochét”, il contadino-sempliciotto con la sua oca. In Valtellina, ben sopra Crema, ma una unica linea “veneziana” le unisce (passando da Bergamo) vi era la leggenda del “Gigiàt”, del fauno-contadino, che più ci si muove verso la montagna, più assume forme meravigliose. Ma l’etimo è quello. L’uno figlio ribelle e mostruoso dell’altro?

Quel che è mirabile, è l’innesto – una metafora agricola si addice immensamente al discorso – di un modello repubblicano, di amministrazione decentrata, in un contesto di amministrazione se non assolutamente centralistica, abbastanza centralistica, col cuore a Milano, e il cervello a Madrid. Crema dava “fastidio” agli imperiali perché era un modello di buon governo in un contesto di governi inefficaci, e soprattutto, era modello repubblicano in un contesto di amministrazione provinciale monarchica, e straniera, ovvero spagnola.

Insomma era un vero pezzo d’Italia nell’Italia in mano a stranieri, almeno parzialmente, ed era un pezzo di “libertà”, nel quadro della Controriforma, mal sofferta nella Venezia sarpiana. Ma che certamente ancora determinava i percorsi artistici, ma con libertà significative anche in essi, con una certa sensualità tutta veneziana, e poco borromaica, insomma. Per questo la “Crema veneziana” è la mostra, ma è a ben vedere tutta Crema, questo gioiello tenuto insieme dalle sue porte, che quasi quasi la stringono in un abbraccio affettuoso prima di proteggerla, come fosse un giocattolo. E non stupisce che al cadere della Serenissima e prima del passaggio alla Cisalpina vi fosse una “Repubblica di Crema” che durò tre mesi, giacobina più di nome che di fatto, significativo esperimento di autogoverno (a quanto mi risulta tutto ancora da studiare), prima che Napoleone vi ponesse fine: esperimento ben riuscito, perché in qualche modo l’esercizio del potere repubblicano, e parzialmente democratico, a Crema durava da tre secoli e mezzo.

Per cui lascio Crema al crepuscolo colmi gli occhi di bellezze, le piazze sinuose, le sue splendide chiese barocche, tutte veneziane, e col suo duomo tra romanico e gotico lombardo, testimone di un fulgido medioevo che ebbe proprio nel periodo serenissimo la sua miglior continuazione, tra ricche fiere e feste e mercati e tessiture. Ancor oggi questa è un’exclave veneta e in fondo i suoi abitanti lo sanno, quasi fosse Este o Cittadella, o Asolo senza la Cornaro, così diversa dalle città vicine, non meno onuste di capolavori, si pensi solo a Monza, ma non tocche dalla grazia, per dir così, tutta aerea, che si riflette perfino nei cieli tiepoleschi, della Serenissima. Che fu grazia, occorre dirlo bene, e chiaro, prima di tutto, politica: saggia amministrazione, con ampie deleghe ai poteri locali.

L’angelo coi piedi nudi e sporchi di Lucini è un inno alla libertà, è il poverello che annunzia la venuta del Signore, rivolto verso Oriente e non Occidente, rivolto, appunto, da Crema verso Venezia. Solo per quest’angelo varrebbe la pena di visitare questa mostra. Si sente tutta la sprezzatura di Caravaggio, ma attenuata da devozioni più meste, meno adirate. Come in Barbelli i volti non hanno contorni, non sono né veneti né lombardi, né sorridenti né tetri, ma vivono di una perenne accidiosa sorpresa, ed incertezza, si pensi al volto enigmatico di Salomè decapitato il Battista, servito a lei come una pietanza indigesta, da ridare a servi e cuochi, onde se ne cibino, cruenti.

Là dove la grazia di Venezia si posa, rimane. La riva destra d’Adda ne ha perpetua nostalgia. Nostalgia di un amore irrealizzato. E si vede.

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