Un giorno sì e l’altro pure capita di sentire il ministro dell’Economia di turno, o il direttore dell’Agenzia delle entrate, parlare di “fisco amico del contribuente”. Sono quelle cose che chiunque abbia avuto la sventura di ricevere la visita degli agenti del fisco sa benissimo essere false.
La situazione, più realisticamente, può essere descritta così: il cosiddetto contribuente deve interrompere la propria attività e dimostrare di aver agito in modo conforme alle innumerevoli e spesso (volutamente?) incomprensibili norme tributarie, perché, anche se formalmente non è scritto da nessuna parte, in queste situazioni si parte da una presunzione di evasione. Quasi certamente, peraltro, una somma più o meno consistente finisce per essere contestata.
A volte capita anche, magari per timore di pagare meno di quanto richiesto dal fisco, di versare in eccesso. Se si paga di meno, occorre procedere con quello che, usando un brutto eufemismo, viene definito “ravvedimento operoso”, onde contenere le sanzioni. Se, viceversa, si paga di più, non è che il “fisco amico” restituisce di sua iniziativa la somma in eccesso. In certi casi si può compensare in occasione dei successivi versamenti, in altri occorre chiedere la restituzione.
Ammesso che il “fisco amico” abbia stabilito come procedere. Cosa che, per esempio nel caso dell’Imu, non è ancora successa, nonostante l’imposta esista da cinque anni. Già si tratta di una imposta per calcolare e versare la quale il cosiddetto contribuente è costretto a separare la parte di competenza del Comune e quella che pretende lo Stato (sempre per “agevolare” la vita del pagatore di tasse). Se uno, poi, si accorge di aver pagato più del dovuto, riesce a ottenere il rimborso della quota comunale (quanto meno sono previste le formalità con le quali chiederlo). Non così per la parte statale, dato che non sono mai state pubblicate in Gazzetta Ufficiale le regole per chiedere il rimborso. Leggo sul Sole 24 Ore che il “regolamento, anche se con qualche anno di ritardo, è arrivato alla Conferenza Stato-Città del 18 giugno scorso, che l’ha approvato, ma in Gazzetta non è ancora comparsa”.
Fisco ed amico sono due termini inconciliabili.
Antitetici.
Il fisco dell’occupante italiano non potrà mai essere amico principalmente perché il contribuente viene considerato come un bancomat. Nelle leggi finanziarie compare sempre la voce “lotta all’evasione”, ma tale voce invece che essere considerata “eccezionale” e destinata a ridurre la pressione fiscale viene sempre usata per finanziare la spesa corrente. Addirittura le Agenzie delle Entrate ricevono degli obiettivi di entrate da “lotta all’evasione”. Il risultato è la vessazione, gli studi di settore assurdi, le norme incerte al fine di sparare nel mucchio e sempre il solito mucchio, piccole imprese, commercianti, professionisti, che già pagano le tasse e rappresentano appena il 9% dell’evasione. Essendo il grosso dell’evasione costituito da grosse aziende, banche, assicurazioni, malavita ed essendo questi gruppi legati a filo doppio con i politici (quando non hanno direttamente i loro uomini nella politica) la “tosatura” dei piccoli contribuenti diventa obbligata. Altro che fisco amico.
L’unica soluzione è per l’appunto destinare le somme a diminuire la pressione fiscale ed istituire un tetto massimo di tasse pagabili nell’anno anche se con accertamento. A questo punto per il fisco italiano tutto il sistema diabolico di tortura medioevale creato in questi anni diventerebbe inutile e dovrebbe finalmente passare ad un fisco “europeo” e moderno, questo l’Europa non ce lo chiede mai?