di MATTEO CORSINI
Tempi difficili per chi si occupa di contabilità. Dal fornire una rappresentazione veritiera e corretta della situazione aziendali in termini patrimoniali ed economici, si sta passando al dover considerare l’ampio e molto politicamente condizionato concetto di sostenibilità. Capita quindi di leggere articoli che invocano la necessità di una “contabilità che sappia dare voce alla Natura”. Prendo spunto da un pezzo di Ariela Caglio del Dipartimento Accounting e direttore del Double Degree Essec dell’Università Bocconi, che comincia così:
- “Secondo il World Economic Forum (WEF), la Natura contribuisce a generare più della metà del Pil mondiale (44 trilioni di dollari).”
Si tratta sempre dello stesso consesso secondo il quale in futuro “non possederemo nulla e saremo felici”. Nel frattempo, loro possiedono molto più della media (e questo non sarebbe di per sé un male) e pretendono di sapere cosa è bene e male per tutti (e questo è indigeribile), spingendo i legislatori a imporre a tutti quanti il loro “illuminato” punto di vista. Chiara la deduzione:
- “Proteggere e rigenerare la Natura è, dunque, fondamentale non solo per la nostra sopravvivenza, ma anche per lo sviluppo economico, così come sottolineato durante il Forum di Davos del 2022 e la recente Cop 15, che hanno posto l’attenzione su prassi nature-positive che consentirebbero di affrontare la perdita di biodiversità e migliorare la salute degli ecosistemi.”
Proteggere la Natura non credo sia un obiettivo contestato, se non da una minoranza non significativa di persone. Come il benessere per il magigor numero di persone, d’altra parte. Ma i mezzi con cui tendere all’obiettivo cambiano, evidentemente. E, in ultima analisi, si arriva sempre alla contrapposizione tra mezzi economici e mezzi politici (o tra mercato e socialismo).
Ma allora perché continuiamo a consumare la Natura e a non preservarla o rigenerarla a sufficienza? Perché, “il valore della Natura è invisibile e perché la Natura è un attore senza voce. I servizi ecosistemici sono largamente disponibili senza esborso di denaro e, come sostiene anche The Dasgupta Review, l’effettivo valore di tutti i servizi che la Natura fornisce alle imprese non si riflette nei prezzi di mercato. Queste distorsioni inducono le imprese a un utilizzo non efficiente delle risorse naturali e a sottoinvestire nella preservazione e rigenerazione della Natura che, in quanto controparte muta, non può manifestare e tutelare i propri interessi diventando spesso vittima silenziosa delle scelte e attività di business.”
Pare che qui si sia di fronte a un esempio di tragedia dei beni comuni. Come affrontare la questione? Qui Caglio offre alcuni esempi:
- “Non esiste solo il famoso esempio di Patagonia, che ha riconosciuto i diritti del pianeta nominandolo suo unico azionista: la ricerca di Bocconi e Alliance Manchester Business School illustra altri casi di aziende lungimiranti che hanno compreso la necessità di considerare la Natura come uno stakeholder (al pari di investitori, dipendenti, clienti, etc.) e di integrare il valore della Natura nelle loro decisioni economiche e finanziarie. Alstria, la società immobiliare tedesca, ha lanciato una proposta chiamata green dividend per coinvolgere i propri azionisti. Questi ultimi possono dare un chiaro mandato all’azienda per investire in progetti al di fuori dei convenzionali criteri di rendimento finanziari, ma altamente efficaci nella lotta contro il cambiamento climatico. Faith in Nature, un’azienda che vende prodotti di bellezza naturali, ha fatto una scelta molto originale: ha assegnato un posto e un voto nel Consiglio di Amministrazione alla Natura stessa. Ora la Natura ha un rappresentante legale che partecipa alle decisioni aziendali che potrebbero impattarla. Questo delegato ha il compito di difendere gli interessi della Natura, come un tutore legale agisce per un minore in tribunale.”
Ovviamente ognuno dovrebbe essere libero di fare ciò che vuole nella propria azienda, incluso riservare posti in CdA alla Natura o fare un lascito al Pianeta. E pazienza se, così facendo, nel frattempo non disdegna di risparmiare un bel po’ di tasse: mica lo fa con spirito anarco-capitalista! Ma che fare per dare un valore alla Natura?
- “Il progetto di ricerca ha anche proposto e testato un’innovativa soluzione contabile chiamata Tabella del Valore Sostenibile (Sustainable Value Table, Svt). Questo strumento ridefinisce il calcolo della distribuzione del valore generato dalle imprese e lo collega agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sdgs). La dimensione verticale della Svt parte dal Conto Economico a Valore Aggiunto (Value Added Statement) e aggiunge una riga dedicata all’Accantonamento in favore della Natura, creando un fondo per ricompensare la Natura delle risorse utilizzate e per promuoverne la rigenerazione, in linea con l’approccio della Capitals Coalition. Questo permette alla Natura di diventare un attore visibile e di avere una voce, grazie a un valore espresso in termini economico-finanziari, e quindi confrontabile con i valori distribuiti agli altri stakeholder. La dimensione orizzontale della Svt, rappresentata dai 17 Sdg, serve a responsabilizzare i decisori aziendali con riferimento alle modalità di creazione e destinazione del valore aggiunto in relazione agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile. Il test della Svt ha evidenziato che questo strumento, rivelando le tensioni tra valore finanziario e obiettivi non finanziari, può rappresentare una potente guida dei processi decisionali nel breve e nel lungo termine per indirizzare la sostenibilità delle organizzazioni. La contabilità aziendale può dare una voce alla Natura e salvare il mondo.”
Il punto è: come determinare l'”accantonamento in favore della Natura” in assenza di prezzi di mercato? Evidentemente in modo arbitrario. Il passo successivo è la fissazione di tali valori per legge (e già i certificati di emissione in gran parte lo fanno).
A mio parere se le risorse naturali non fossero in larga parte di proprietà statale, bensì di privati, costoro avrebbero tutto l’interesse a preservarle e utilizzarle al meglio. Gli stessi prezzi di mercato fornirebbero un indicazione derivante da scambi volontari e dalle valutazioni di una molteplicità di soggetti.
Ogni altra soluzione riporta alla tragedia dei beni comuni e le derive socialisteggianti a cui spesso si approda per cercare, non riuscendoci, di risolvere i problemi.
Un esempio di privatizzazione sono le acque oligominerali in Italia che sono tutte prima state gestite da aziende minori, poi acquistate da politici e quindi vendute alle multinazionali.
A me non pare un esempio in cui il mercato ha fatto il bene della popolazione, purtroppo è solo un esempio di come il capitale delle corporazioni, agendo sul mercato con grandi risorse, mette in un angolo la concorrenza e determina lo scippo di ogni valore a proprio ed esclusivo vantaggio.
Non è stato il mercato a non fare il bene della popolazione ma la sua assenza. L’intervento politico sulle acque è un’interferenza legislativa contro il mercato, non importa se poi c’è stata una rivendita. Perché quest’iltima non è stata un atto spontaneo di piccoli imprenditori che hanno venduto a società multinazionali ma un’indebita ingerenza amministrativa gestita da chi imprenditore non è. E che comunque non ama il mercato.