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Di imperi e di stati sono piene le fosse, ma Venezia è viva nella storia

Da leggere

di PAOLO L. BERNARDINI

Giace l’alta Cartago: a pena i segni

de l’alte sue ruine il lido serba.

Muoiono le città, muoiono i regni,

copre i fasti e le pompe arena ed erba,

e l’uom d’esser mortal par che si sdegni:

oh nostra mente cupida e superba!

Tasso, Gerusalemme liberata, XV.

Se è vero che la forma “Stato” è transeunte, mutevole, destinata forse a scomparire, non è meno vero che gli Stati stessi, e a maggior ragione, sono transitori, così come gli imperi. I cimiteri di stati e di imperi sono pieni di tombe. Potrei citare un numero altissimo di Stati – compresi quelli studiati nel bellissimo libro di Norman Davies di cui ora parlerò, o almeno alcuni di essi – che non dicono più niente neanche agli eruditi, che non son pane per i denti dei sapienti o sapido formaggio per i topi di biblioteca. Paradossalmente, Stati che non sono mai esistiti, come Utopia, agghiacciante invenzione di Thomas More, sul modello di Atlantide, invenzione di Platone, sono maggiormente noti, poniamo, del Giudicato di Arborea, splendido regno indipendente sardo che durò mezzo millennio, ed ebbe (e ha) un ruolo fondamentale nella storia di quel che sommariamente potremmo definire “indipendentismo sardo”, inteso sia come aspirazione, sia come realtà statuale effettivamente realizzata in un passato non troppo remoto. Se gli indipendentisti veneti possono orgogliosamente richiamarsi alla Serenissima, i loro omologhi sardi legittimamente possono richiamarsi a quel mirabile regno. La I guerra mondiale, l’”inutile strage”, pose fine a quattro imperi. Gli estensori di costituzioni che danno loro un valore ed una durata “eterni” si macchiano di una ridicola arroganza: la clausola “finché morte non vi separi” lega i cittadini in realtà ad ogni stato. Muoiono senz’altro i cittadini (tantissimi proprio grazie agli Stati), ma gli Stati anche. Alcuni durano lo spazio di un giorno – la repubblica di Rusyn effimera come una farfalla, nata e morta il 15 marzo 1939, qui ricordata da Davies – altri millenni, come l’Impero cinese, altri come il Giudicato di Arborea 500 anni che è uno spazio di tempo degnissimo.

Norman Davies è storico di assoluto valore, esperto di Europa Centrale, autore di una grande sintesi di storia europea, e molti dei suoi libri sono stati tradotti in italiano. L’ultimo, Vanished Kingdoms. The Rise and Fall of States and Nations (Viking, 2012), ancora no, che io sappia almeno. Nell’introduzione, dove giustamente stigmatizza gli storici tutti vasi dalla statolatria, “morbus statolatricus”, mi verrebbe di chiamarlo, che si affannano a scrivere su quegli Stati che ancora esistono forse anch’essi convinti della loro immortalità, Davies si richiama al gran padre (un po’ padrone…) degli storici inglesi, quell’Edward Gibbon che del maggior Stato del mondo, l’Impero romano, narrò decadenza e caduta sul finire del Settecento. Caspita anche l’Impero romano cadde, sebbene poi quella corona che ha causato più sciagure di ogni altra sia rimbalzata di testa in testa, di stato in stato, dalla Francia alla Germania, per poi consumarsi nella follia imperiale di Hitler (vero Frau Merkel che il IV Reich non lo vuol fare?), transitando per un millennio anzi più, insomma una cosa da nulla, a Bisanzio, sempreché poi i Mussulmani di cotale corona non volessero farsi eredi, e allora, almeno per quella, la storia finisce nel 1919. Certamente, però, in qualche censura preventiva potrebbe incorrere, tale auspicata traduzione, visto che con gran sprezzatura e aplomb molto British Davies menziona tra gli Stati europei in articulo mortis il Belgio e “forse l’Italia” (a pagina 7). Gli chiederanno di modificare quel passaggio, cosa che, conoscendo indirettamente Davies, credo proprio che non farebbe: se è vero che pone elegantemente in dubbio anche il futuro della Gran Bretagna: la Scozia ha avuto il suo referendum, il Galles a ruota, e l’Irlanda, come Davies nota, è stata la prima grande colonia persa (dopo l’America, ovviamente) nel 1922.

“Muoiono le città, muoiono i regni…” Tasso lo vedeva accadere in vita, del resto. Cateau-Cambresis è del 1559, l’anno in cui il Tasso cominciava, a Venezia, a scrivere il suo magnifico poema (all’età di 15 anni, non c’erano le playstation). Pace epocale: tra l’altro, vede sancita formalmente la fine del Ducato sforzesco, Milano, che lo era già de facto, diviene de iure spagnola. Se solo Francesco II Sforza avesse messo al mondo un bimbetto, i veneziani che lo avevano aiutato così tanto con la lega di Cognac, suscitando i timori di Carlo V, avrebbero potuto fargli sposare qualche bella fanciulla feconda. Ma così non fu. Milano non è più dei milanesi. Spagnoli, austriaci, francesi, sabaudi – con la mirabile parentesi del 1848-1849, e quelle meno mirabili delle Cisalpine e della Repubblica italiana, puppet states napoleonici – ne faranno terra di conquista fino al 2013.

La lezione che si trae dal libro è duplice. Per gli storici: meraviglioso occuparsi degli stati che non ci sono più, è un salutare viatico contro la statolatria, male endemico della categoria. Per i lettori: attenzione al piccolo, al dettaglio, al dimenticato, offre tantissime sorprese. Splendido il capitolo sul regno di Aragona, utilissimo per capire le vicende catalane, attualissime. Affascinante il capitolo sulla Sabaudia… L’Italia fino al 1946 vista sotto la prospettiva della casa di Savoia! Dunque, l’Italia sub specie Savoia comincia in realtà con Umberto I, ma quello nato nel 980 e morto nel 1047…Prospettiva intelligentissima, questa. Prima della finzione “nazionale”, i regni, come li affronta qui Davies, sono regni dinastici. E’ il famoso Umberto Biancamano. Un giorno – 814 anni dopo —  Vittorio Emanuele sua progenie trasformerà il suo regno in quello d’Italia, passando attraverso la sua “identità” sarda (da leggere l’eccellente libro di Francesco Cesare Casula sul “grande inganno”, che offre una prospettiva leggermente diversa rispetto a Davies e forse maggiormente corretta, ovvero i Savoia erano duchi di Savoia, e re di Sardegna, fino alla sciagurata Unione Perfetta dello sciaguratissimo Carlo Alberto nel 1847, dunque l’Italia nata nel 1861 non avrebbe potuto (anche per la cessione della Savoia a Napoleone III), essere un’estensione del ducato “unito perfettamente”, ma doveva essere per forza una estensione del Regno, e dunque risalire, questo il tema del libro di Casula, al regno di Sardegna nato a Cagliari nel 1324 (per la precisione il 19 giugno), la cui corona cadde sul capo dei Savoia nel 1720.)

Un libro dunque che vivamente consiglio. Parla anche del regno d’Etruria, “serpe francese sull’erba toscana”, ci insegna che il Borussia non è solo una squadra di calcio, e mi ha fatto piangere, alla fine, perché cita, nelle mirabili paginette di chiusura, su “come muiono gli stati”, la Serenissima. E quei versi così belli, così malinconici, che dedicò William Wordsworth, nel 1802, “alla fine- extinction – della Repubblica di Venezia”, “padrona dell’Oriente favoloso”, “muro di cinta dell’Occidente”, “the eldest child of liberty” “la prima figlia della libertà”. Traduco qui sotto gli ultimi, con cui si conclude un libro favoloso di 830 pagine, che forse non mette Venezia tra i capitoli perché è impresa sempre ardua trattarne, e all’estero, nelle scuole, insegnano quanto fu grande, davvero:

“Uomini noi siamo e ci sarà dato di soffrire

Anche quando perfino l’ombra svanirà di essa, che fu Grande…”.

Ma non è svanita quell’ombra. Come avrebbe potuto? Alla fine dei tempi continuerà ad allungarsi sui mondi che verranno. 

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