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Dichiarazione di disappartenenza dall’«homo covidiens» e dal politicamente corretto

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di RENATO CATTANEO«

Posso confessarlo: il non dire, in tempi come questi, avrebbe per lo meno il pregio dell’eleganza del nulla. Ma forse sono tempi in cui si impongono opportune interruzioni alla sobrietà del silenzio.

A un anno e mezzo di distanza dall’inizio dello sciacallaggio mediatico basato sul mantra della paura e della colpa, penso si possano trarre alcune fila di un discorso sociale schiacciato su improvvide polarizzazioni e che finisce per impantanarsi a metà strada tra Kafka e Pirandello, senza avere la tragica lucidità del primo e l’ironia del secondo.

Veniamo perculati con sadica regolarità da una pletora di norme a singhiozzo che fanno sembrare obsolete le supercazzole del conte Mascetti. In questo caso però, la presa in giro non anima, ma ci schiaccia su un quotidiano frammentato in nonsense operativo che ha reso antipatico persino il bersi un caffè al bar alla mattina.

Ma perché? Difficile rispondere. Mi sono sempre interessato della collettività, nella sua imprevedibile e oscillante declinazione tra comunità e massa. Quali alchimie permettono la costruzione di una comunità ed evitano le insidie della folla uniforme? Mi sono laureato in psicologia clinica con una tesi sulla comunicazione di massa perché ho sempre sentito l’influenza di Jung e della sua visione ampia dello psichismo: qualcosa che respira nello zeitgeist (fa figo e sta per “spirito del tempo”) e non si incontra sui libri e nemmeno nella stanza di analisi. Per questo e altri interessi, ho sempre avuto uno sguardo attento alle atmosfere collettive e ai grandi media, sempre pronti a fare da cassa di risonanza o da muro insonorizzante. La manipolazione delle folle è uno dei temi centrali del 900 e con l’avvento di internet, ha solo assunto aspetti iperbolici negli ultimi trent’anni.

Per indole e studi il filtro dell’ironia mi ha sempre accompagnato e difeso nel mio sguardo a volo d’uccello (più gazza ladra che sparviero) sulla contemporaneità. Confesso però che lo spirito “patafisico” che è in me ha trovato, nell’ultimo anno e mezzo, pane per i suoi denti. Vedete, la patafisica (cfr. Alfred Jarry), come scienza delle soluzioni immaginarie, può tornare utile nel trasformare il grottesco che circonda l’uomo contemporaneo, in qualcosa di più leggero e gestibile, financo nutriente e digeribile. Un’alchimia sempre più difficile da operare quando si è sottoposti ad un bombardamento narrativo univoco, stereotipato, privo di stile ma con la drammatica efficacia del pugno della legge.

Il mio dire, perdonate l’ardire, è volutamente “supercazzolante”, uno stile che mi consente di vivere senza perdere il senno in tempi di biopolitica e ortopedia sociale di massa. Se per le moltitudini va bene vivere in un mondo stile Brasil di Terry Gilliam (rivedetelo ora!) pensato da un Kafka in acido con qualche spruzzata di Goebbels qua e là, be’, che dire, forse sarebbe meglio studiare come accattarsi un vestito da cespuglio e studiare l’arte del mimetismo, piuttosto che stare a ragionar in punta di penna. Anche perché di un’umanità che occulta i volti dei figli e lascia morire in solitudine i vecchi, avrei fatto volentieri a meno.

Il quotidiano è infiltrato dal kitsch senza sosta di un green pass in upgrade così incalzante e crescente, che mi aspetto da un giorno all’altro un discorso del tipo: “Io sono il vostro nuovo presidente. D’ora in avanti la lingua ufficiale del Bananas sarà lo svedese! Silenzio. A partire da ora tutti i cittadini saranno tenuti a cambiarsi la biancheria ogni trenta minuti! La biancheria sarà portata sugli indumenti, per poter controllare. Oltre a ciò, tutti i ragazzi sotto il sedicesimo anno di età a partire da ora avranno sedici anni!” (Woody Allen, Il dittatore dello stato libero di Bananas. Vale quanto detto con Brasil: guardatelo ora!).

In un clima siffatto che, a questo punto, mi vergogno a definire zeitgeist, non sorprende la ramificata infiltrazione di un pensiero politicamente corretto che non conosce il senso del ridicolo e della storia. Sulle nuove release DVD e streaming dei Muppet Show, Disney ha deciso di aggiungere disclaimer di questo tipo: “This program includes negative depictions and/or mistreatment of people or cultures. These stereotypes were wrong then and are wrong now”. (NDR: Questo programma include rappresentazioni negative e/o maltrattamenti di persone o culture. Questi stereotipi erano sbagliati allora e sono sbagliati adesso).

Sic. Simili considerazioni calano su tanti classici dell’animazione. In questa tenaglia di obblighi vessatori da una parte e di edulcorazioni banalizzanti dall’altra, assisto con preoccupante continuità al rattrappirsi di persone, di luoghi culturali e di spazio tempi dedicati agli scambi e al confronto, in un contesto di generale e diffusa pusillanimeria verso il vivere. Una ridondante reductio ad divanum universale con benedizione di Netflix e contorno di spritz, che esita in un uomo che teme Dumbo, gli Aristogatti e il Muppet Show e spera di essere salvato da un farmaco. Niente male!

Anche Dante si sarebbe dovuto inventare un nuovo cerchio. Forse prima ancora degli Ignavi, in un anti-anti-inferno: un girone Luna-Park, a latere della selva oscura, colorato e pastelloso, dove si entra solo con tessere sanitarie e opportune inoculazioni. Qui le anime si aggirano inebetite e inebriate al tempo stesso dall’appartenenza gioiosa, dimentiche di dove si trovino, senza nemmeno la dignità dell’anima dannata, che almeno riflette ricorsivamente su di sé in un contrappasso infinito. Altro che la statuaria posa di un Farinata o di un Capaneo. Per non dire di Ulisse. No: il nostro fiero dannato, della consistenza del pongo, sguazza amabile in agghiacciata moltitudine.

Con un livello umano e culturale siffatto non c’è voluto molto perché il pensiero critico, vilipeso e censurato, fosse rapidamente sopraffatto dal sospetto e dal fideismo in salsa scientista, ammannita quotidianamente usando tutti gli strumenti conosciuti della comunicazione manipolatoria. Le illusioni necessarie per non affrontare la dissonanza cognitiva imperversano e sostengono la marea montante del conformismo di massa. L’uomo “pastelloso” dell’ipotetico girone del “culto di covid” ha bisogno, per mantenere rigorosa la sua visione manichea da Luna-Park, di censurare, stigmatizzare, perseguire, tutelare, regolare, ordinare. Insomma, un incrocio tra l’Azzeccargabugli manzoniano e un profilattico.

Grazie a tutto ciò, chiudere milioni di persone sane in casa è stato fatto passare come cosa di buon senso. Il Potere sentitamente ringrazia e la sinistra, che fino all’altro ieri ricordava, con Basaglia, che la libertà è terapeutica, pare in stato di totale catalessi.

A questo pseudo-stile di vita che si fa dettare, senza uno straccio di dialettica, la propria agenda di senso da Big Pharma e dai Grandi Banchieri, uno stile che mi ripugna, dichiaro la mia esplicita disappartenenza.

Lo dichiaro per semplice etica personale. Come valore di testimonianza. Non mi attendo slanci nietscheani e amor fati, anche se, forse, avrei auspicato qualcosa di più del rigor mortis degli intellettuali.

E così, dopo un anno e mezzo di manipolazione delle anime, sotto l’egida di un’epidemia geriatrica che mette il mondo a gambe all’aria consegnandolo al potere biopolitico, tento di tenere vivo uno spirito anarco-patafisico che conferisca tempra e ironica leggerezza. Mi curo come so, facendo lo slalom tra divieti insensati e gli sguardi ostili dei diversamente dialettici, ormai sedotti dalle lusinghe semplificanti della norma. Faccio inoltre mio il recente invito del filosofo Agamben a investire in “una comunità degli amici e dei vicini dentro la società dell’inimicizia e della distanza”, riservandoci l’auspicio di uno spirito di resistenza e l’abolizione della resilienza (tanto cara a Draghi) che rischia di diventare la virtù precipua dello schiavo.

TRATTO DA QUI

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