A Minori, provincia di Salerno, è andato in scena un musical dedicato alla “rivolta di Masaniello”, che infiammò i napoletani nel lontano secolo Diciassettesimo: “La pressione fiscale è un torchio senza tempo ma la reazione varia, a seconda delle epoche: basti pensare che Masaniello aveva solo 27 anni quando, armato solamente di canne da pesca e bastoni, incitò il popolo a ribellarsi alle tasse imposte dal governo spagnolo, le gabelle. Quel ‘disgraziato’ d’un pescivendolo, eppure, incarna, ancora oggi, lo spirito del popolo campano che non smette di rendergli omaggio”. Così, la presentazione dello spettacolo.
Come ebbi modo di dire a Bruno Tinti – un magistrato che mi augurò la galera – durante una trasmissione su RaiTre, la storia dell’umanità è una storia di rivolte fiscali, che solitamente si manifestano in tre fasi: cominciano con la mal sopportazione del comportamento dei gabellieri, qualche critica e un po’ di evasione (che per dirla con Pierre Lemieux è una forma di rivolta pacifica); continuano con un po’ di arrabbiatura, con la parte più produttiva della popolazione che emigra e con qualcuno che si suicida; finisce con la ribellione del popolo, che comincia a prendere a legnate i tiranni ed i suoi servitori. Non mi sto inventando nulla, lo han detto autori di gran fatta.
Chi ha letto il libro di Charles Adams, intitolato “For Good and Evil”, sa bene che storicamente grandi e potenti Stati o, addirittura, civiltà si sono spente per la smania tassatrice degli uomini al governo. Smania tassatrice che ha comportato sempre le stesse cose: ribellione e inevitabile fuga di persone e di capitali in luoghi più accoglienti. E’ accaduto nell’antico Egitto, nell’Antico Israele, nell’Impero romano, in quello spagnolo ed olandese, ovviamente in quello inglese, di cui la rivoluzione americana rappresenta ancora oggi la rivolta fiscale per antonomasia. Furono le imposte a sconfiggere Napoleone e i di lui scherani vennero cacciati dai contadini al grido di “A morte i gabellieri”.
In “Per chi suona la Toscana” di Giorgio Batini, “un caso davvero particolare di rivolta fu quello dei monaci benedettini della Badia Fiorentina: nel 1307. Anziché suonare i loro bronzi per le ore canoniche (la città, come ricordava Dante, traeva ‘e terza e nona’ proprio dal campanile della Badia), li suonarono a martello contro le tasse imposte dal Comune, quasi un invito per i cittadini alla rivolta fiscale. Ma il Comune reagì pesantemente”. Luigi XIV grazie alle tasse sul caffé riuscì addirittura a finanziare alcune imprese militari. I cittadini, tuttavia, protestavano contro le tasse inique e, nel 1732, proprio ispirandosi alle proteste popolari contro le tasse sulla bevanda, J. S. Bach scrisse la Cantata del caffé.
Sergio Ricossa, un liberale diventato libertario, non ha mai avuto timori nel definire “la libertà come la ribellione allo Stato predone”. Piero Ostellino, nel suo libro “lo Stato canaglia”, ha vergato parole tranchant contro il notabilato politico italico: “Il mio non è un auspicio, né tanto meno un incoraggiamento, ma, nella nostra situazione, il solo modo di sconfiggere ‘la Casta’ a me pare non rimanga che la rivolta fiscale”.
In un libro di Luigi Fressoia intitolato “Elogio dell’evasione fiscale” sulla copertina si legge: “La rivolta fiscale non è un’espressione del populismo, bensì di una coscienza di classe che va maturando. E non è nata di recente, né come cieca reazione “antipolitica” alla corruzione e all’inefficienza di una generica classe politica, bensì va più in profondo, arrivando a chiedersi dell’intera organizzazione dello Stato, degli enti pubblici. In ciò essa è autenticamente progressista”.
Aldo Canovari, editore e giudice tributario per ben 24 anni, ha scritto: “Pretendere, in un assetto di rapina legalizzata come quello italiano, che i cittadini assolvano correttamente all’obbligo tributario, e scandalizzarsi se non lo fanno, è ipocrisia o idiozia. E, poiché è stata valicata ogni ragionevole soglia di sopportazione, potrà innescarsi in tempi brevi una vera e propria rivolta”.
Gianfranco Miglio, colui che ha portato in Italia il Thoreau della “Disobbedienza civile” (che gli indipendentisti nostrani o non hanno letto o se lo hanno letto non lo hanno capito), disse: “Noi siamo un movimento rivoluzionario pacifico, ma adopereremo dei mezzi politici distruttivi, come uno sciopero fiscale mirato che metterà lo Stato nemico con le terga a terra. Questa è la guerra politica che prepariamo. Noi siamo fondamentalmente pacifici ma… incazzati”. Purtroppo, non sapeva che Bossi l’avrebbe tradito. Il professore comasco, nel redigere il “Manuale di resistenza fiscale” nel 1996, sostenne: “Certo i detentori del potere, di ogni tempo e di ogni luogo, hanno sempre considerato gli averi dei sudditi (e poi dei cittadini) come pienamente disponibili, collocando i prelievi di ricchezza di gran lunga in prima fila tra gli atti di governo. […] I popoli liberi e meglio ordinati sono quelli che si permettono ogni tanto di ribellarsi”. Solo la L.I.F.E. ebbe il coraggio di provarci.
Quando, un anno e mezzo fa, si mossero quelli dei forconi, la loro ragione sociale è stata la rivolta fiscale, ma – infarciti di ridicoli personaggi che ne fecero parte e che nulla c’entravano con un sano spirito ribellista, volevano solo sussidi – il loro principale problema fu quello di non avere in testa un progetto serio e rigoroso da mettere in pratica. Inconcludenti come i forconi sono stati i leghisti, che in trent’anni hanno annunciato – e continuano ad annunciare – scioperi e azioni di resistenza fiscale. Fumo negli occhi.
In Irlanda, diversamente, quando il governo decise di introdurre una specie di Imu (molto meno esosa della nostra), accade che su 1.700.000 potenziali contribuenti, 800.000 non l’hanno pagata e sono scesi per le strade a protestare. Non è detto che una rivolta fiscale debba essere violenta, basti leggere e conoscere le gesta, e la storia, del Mahatma Gandhi.
Lungi dall’essere moralmente indifendibile, la rivolta fiscale è quindi al centro della tradizione civile e politica del liberalismo classico, e rappresenta un formidabile strumento nelle mani di quanti vogliano tornare in possesso di quella libertà che il ceto politico ha loro sottratto.
Di tanto in tanto, c’è qualche “Masaniello” che disperato, anziché suicidarsi decide di far danni all’Agenzia delle Entrate o ad Equitalia, ma al massimo riesce ad ottenere qualche applauso distaccato sui social network. L’azione di questi “Masaniello di ritorno” è l’incarnazione ultima e nostrana delle parole lasciateci in eredità da John Locke qualche secolo fa: “Esula dai doveri dell’uomo sottomettersi ai governanti sino al punto da accordar loro licenza di distruggerlo, poiché i cittadini hanno il sacrosanto diritto di ‘appellarsi al cielo’ ogni qualvolta non c’è altro rimedio contro i soprusi del governo”. Infine, ma pur sempre con Locke, “Laddove la potestà tributaria è usata come strumento per depredare alcuni cittadini a favore di altri ed ha come suo unico limite quello della voracità delle corporazioni sul cui consenso il governo fonda il suo potere, lì la democrazia si riduce a farsa della democrazia e lì esploderà la rivolta”.
La democrazia italiana è una farsa, anzi… una tragedia! Purtroppo, nessun Masaniello dei giorni nostri è ancora riuscito ad accendere la miccia di una rivolta vera.
Concordo con tutto l’articolo, facendo un’ulteriore considerazione sull’espressione «La democrazia italiana». Certo, quella italiana è peggiore di tante altre. Però la democrazia ha in sé principi e contraddizioni di fondo che ne fanno, in tutti i casi, uno strumento di governo non… democratico. Intendo dire che il governo democratico non è mai, come molti – ma non certo Leonardo Facco – ingenuamente credono, sinonimo di «governo del popolo» e di «libertà». Ciò è ben chiaro agli studiosi di storia, almeno a quelli che non raccontano favole in malafede.
In particolare, in relazione al problema fiscale, le democrazie moderne (diciamo dalla rivoluzione Francese in poi), hanno sempre aumentato i livelli di tassazione, tanto da superare di gran lunga quelli del precedente periodo dei governi assolutisti. La quantità del prelievo fiscale, le modalità del prelievo e l’uso delle risorse fiscali dimostrano che la «democrazia», in questo settore, è più assolutista dell’assolutismo. Non per nulla si è spesso anche delineata la categoria storica e teorica della «democrazia totalitaria».
Chiudo con una curiosità forse non abbastanza nota. Fra le critiche che gli illuministi del Settecento rivolgevano ai governi assoluti, in particolare a quelli meno organizzati, come nello Stato della Chiesa, vi era l’accusa che la tassazione era troppo bassa, per cui lo Stato non aveva le risorse per provvedere ai bisogni pubblici, come la costruzione di infrastrutture, la diffusione dell’istruzione, la garanzia di una polizia più efficace e di un esercito più forte ecc. Non si chiedevano meno tasse, ma più tasse. Logicamente – almeno a parole – giustificate con l’interesse pubblico e la loro migliore e più onesta gestione.
La democrazia ci ha dato più tasse, ma non sempre una loro migliore gestione.
Grazie!
E’ la realtà.
Chi ha senso della propria libertà e della propria individualità non può non accorgersene.