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Draghi e la dipendenza cronica dal debito pubblico

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di MATTEO CORSINI

Ho letto la prefazione di Mario Draghi al report sulla competitività che la Commissione europea gli ha chiesto di predisporre. I primi resoconti giornalistici che ho scorso si concentrano principalmente sulla produzione e relativo finanziamento con debito comune di beni pubblici europei, anche a supporto del recupero di competitività. Elemento che è ovviamente presente e che ha fin da subito riacceso la classica contrapposizione tra Paesi molto indebitati e intossicati dalla spesa pubblica (a sud delle Alpi ne sappiamo qualcosa), favorevoli all’emissione di debito comune, e Paesi meni indebitati, indisponibili a mettere le tasse dei propri cittadini al servizio di questo debito comune.

Draghi delinea una strategia che prevede maggiore coordinamento e azioni comuni a livello comunitario, e non poteva essere altrimenti. Un po’ perché quello è il suo punto di vista, e un po’ perché il committente del report è la Commissione europea. Tutto parte dalla perdita di competitività registrata nel nuovo millennio soprattutto nei confronti di quanto accaduto negli Stati Uniti. Altri raffronti sono poi fatti con la Cina. L’analisi è quindi impostata ragionando per macro aree, insistendo sul fatto che solo uniti i Paesi europei possono competere con Stati Uniti e Cina.

Si tratta di un approccio in cui la politica non ha, inevitabilmente, un approccio lieve e di laissez faire. E questo non può che far storcere il naso a chi vede nell’interventismo statale un problema, e in quello continentale un problema ancora più grande. Su alcuni punti l’analisi omette fatti che credo non siano trascurabili. Per esempio, scrive Draghi nella prefazione:

  • “In base a diverse metriche, si è aperto un ampio divario nel PIL tra UE e USA, causato principalmente da un rallentamento più pronunciato nella crescita della produttività in Europa. Le famiglie europee hanno pagato il prezzo in termini di standard di vita persi. Su base pro capite, il reddito disponibile reale è cresciuto quasi il doppio negli USA rispetto all’UE dal 2000.”

Il che è vero. C’è un elemento legato alla produttività, che in Europa è sostanzialmente stagnante, non da ultimo perché, come nota lo stesso Draghi, c’è una “regolamentazione restrittiva”. Non a caso, “oltre la metà delle PMI in Europa segnalano ostacoli amministrativi e regolatori come sfide principali”.

Tra le soluzioni proposte c’è il superare il voto all’unanimità per cercare di ridurre i tempi del processo legislativo, ma il problema vero è che l’Ue ha un approccio che a me pare patologico alla regolamentazione, che è lo strumento che serve alle strutture burocratiche per conservare e accrescere il loro potere sostanziale e la loro dimensione. Per di più, nel confronto con gli Stati Uniti, Draghi omette di segnalare che non solo il reddito delle famiglie è aumentato dal 2000 a oggi molto più che in Europa, bensì anche il debito federale. A inizio secolo il debito federale ammontava a poco oltre la metà del Pil, mentre a livello di Area euro (un sottoinsieme significativo della Ue) era al 70%. Per la fine del 2024 in Area euro il debito pubblico dovrebbe attestarsi all’88,7%, mentre negli Stati Uniti supererà il 123%. Negli Stati Uniti non tutto è oro (soprattutto in prospettiva, di questo passo) quello che luccica.

Chiudere il gap di innovazione e produttività, adottare un piano per la decarbonizzazione e la competitività, nonché aumentare la sicurezza riducendo al contempo la dipendenza da fornitori esteri (Russia e Cina in primis) sono le aree di azione su cui si concentra il report. Il tutto richiederebbe investimenti aggiuntivi a livello europeo per 800 miliardi all’anno, ossia il 5% del Pil. Una cifra su cui, a prescindere da ciò che si pensa, realisticamente non si formerà un consenso politico, per le note contrapposizioni prima citate. Al pari di mettere in comune settori come la difesa. Il tutto, in ogni caso, equivarrebbe a prendere a prestito (una montagna di) risorse dalle tasse future.

Dubito, peraltro, che la produttività potrebbe aumentare in modo tale da consentire di ripagare questi investimenti. Ma iniziare ad asciugare la regolamentazione potrebbe essere un buon inizio e non richiederebbe neppure di fare debito. Su una cosa concordo con le conclusioni di Draghi:

  • “Dovremmo abbandonare l’illusione che solo la procrastinazione possa preservare il consenso. In realtà, la procrastinazione ha prodotto solo una crescita più lenta e non ha certamente ottenuto più consenso. Siamo arrivati ​​al punto in cui, senza alcuna azione, dovremo compromettere il nostro benessere, il nostro ambiente o la nostra libertà. Affinché la strategia delineata in questo rapporto abbia successo, dobbiamo iniziare con una valutazione comune della nostra posizione, degli obiettivi che vogliamo dare priorità, dei rischi che vogliamo evitare e dei compromessi che siamo disposti a fare.”

Ecco, io non sono dell’idea che fare più cose a livello comunitario per via legislativa sia la via preferibile per migliorare la competitività e aumentare la produttività, men che meno credo che il debito debba essere lo strumento principale per finanziare gli investimenti necessari. Che, in ogni caso, dovrebbero essere decisi dalle imprese, non dagli Stati (o super-stati; si pensi solo allo sciagurato piano per elettrificare il settore auto). Questi ultimi dovrebbero rimuovere gli ostacoli che oggi, come ricorda lo stesso Draghi, spingono le imprese verso l’altra parte dell’Oceano o in Asia.

Certamente, però, esistono dei trade-off, alcuni dei quali evidenziati da Draghi. Per esempio non si può mantenere l’attuale welfare senza recuperare produttività e competitività, quindi aumentando la crescita economica. In ogni caso tutto non si può avere e finanziare a debito, checché ne pensino i molti, soprattutto a sud delle Alpi, che ritengono che basti stabilire che una certa spesa è esclusa dal calcolo del deficit per renderla un pasto gratis. A onor del vero, Draghi non è tra questi, anche se, da presidente della BCE, ha contribuito, con QE e tassi negativi, a rendere cronica la dipendenza da spesa a debito, che per anni sembrava un pasto gratis.

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