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Elogio del consumatore capitalista, del profitto e della concorrenza

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di GIORGIO BIANCO*

Il pregiudizio anticapitalistico, si sa, può assumere molte forme. Tra queste, una delle più tipiche e diffuse è la critica al consumismo, nella quale, da decenni, intere generazioni di intellettuali non si stancano di esercitarsi. Paradossalmente, ciò appare tanto più vero oggi che il “socialismo reale” è crollato: squagliatisi come neve al sole quasi tutti i vecchi miti della sinistra, a tanti intellettuali e militanti che fino all’altro ieri sparavano a zero sul mondo occidentale in nome di “paradisi” come la Cina di Mao o la Cambogia di Pol Pot non è rimasto più nulla da contrapporre all’odiato ordine di mercato, se non quella che è stata definita la “critica estetica” al capitalismo. Così, schiere di saggisti, giornalisti e accademici, ben pasciuti e perfettamente inseriti nella società dei consumi, continuano a scagliare le loro invettive contro il “falso benessere” della società di mercato e contro le masse, accusate appunto di consumismo, parola che, nei loro discorsi, è sinonimo di volgare materialismo, basso edonismo, rozza superficialità.

Come ha scritto Von Mises nel libro che ha dedicato all’argomento, uno dei tratti più tipici di certa mentalità anticapitalistica, romantica e antimoderna è appunto quello di dare per garantiti tutti i vantaggi della civiltà, nel momento stesso in cui si disprezza l’ordine sociale di mercato, sdegnosamente bollato come “borghese”. Sono l’ignoranza o l’indifferenza verso le fonti del benessere che inducono a dare per scontati i vantaggi materiali del progresso, e ad archiviare come acquisite conquiste che, fino a poco tempo prima, erano privilegio di pochi.

Eppure, come ha scritto Llewellyn Rockwell Jr., fondatore e direttore del Ludwig Von Mises Institute, “le glorie dell’impresa privata sono più evidenti in quelle meraviglie che diamo per scontate”. Come hanno osservato in molti, da Mises stesso a Ignazio Silone, la maggior parte di noi gode oggi di agi materiali che Crasso, i Medici o Luigi XIV non sarebbero stati neppure in grado di immaginare. “L’operaio di una città modernascriveva Siloneusufruisce, oggi, di un benessere materiale superiore a quello di un nobile dei secoli scorsi: basta riflettere alle molteplici applicazioni dell’elettricità d’uso comune per l’uilluminazione, il riscaldamento, i trasporti. Girando un semplice interruttore elettrico chiunque di noi ha più luce di quanta ne ricevesse, nel medioevo, un principe accompagnato da servitori con candelabri d’argento. Ma la ‘soddisfazione’, bisogna ammetterlo, è inferiore. Nella mentalità dell’uomo medio, il benessere appena condiviso si disprezza”.

Niente, forse, simboleggia questa distorsione percettiva meglio della bistrattata, disprezzata, derisa istituzione dei fast-food, la quale, più di ogni altra, ha consentito la diffusione e la “democratizzazione” di quel consumo di carne, che, come ben sanno storici e antropologi, rappresenta uno dei segni più inequivocabili della prosperità materiale di una società.

La più grande sfida dell’economia, ha scritto Rockwell, è da sempre quella di fornire a tutti, e non solo ai ricchi, accesso al cibo. Non a caso, è proprio questo il terreno su cui il socialismo ha cercato di sfidare l’ordine capitalistico, credendo di vedere nell’abolizione della proprietà privata e nella redistribuzione delle risorse la risposta alle “iniquità” e alle “imperfezioni” del mercato. E invece le testimonianze che ci sono venute dall’Est europeo all’indomani della caduta del comunismo ci raccontano che l’economia pianificata ha fallito proprio sul terreno che avrebbe dovuto esserle più congeniale, dimostrando di non essere in grado di fornire ai suoi cittadini nemmeno i più elementari beni di consumo.

Per quanto possa suonare blasfemo alle orecchie dei paladini socialisti e cattolici dell’etica della redistribuzione, è stato invece l’avvento del capitalismo ad aprire l’accesso al cibo a moltitudini di individui che altrimenti, come ha scritto Friedrich Von Hayek, non sarebbero neppure mai nate, o non sarebbero vissute abbastanza a lungo da poter procreare. “La logica stessa della produzione industriale – scrive per parte sua lo storico Massimo Montanarinon poteva tenere escluse a lungo le classi inferiori dal godimento delle risorse alimentari. Per funzionare l’industria ha bisogno di consumatori, e, dal momento in cui l’agricoltura cominciò a modificare il proprio statuto economico trasformandosi da produttrice di cibo in fornitrice di materie prime all’industria alimentare, quest’ultima sollecitò l’allargamento sociale del mercato degli alimenti. Oltre al tè, […] la classe operaia inglese si vide offrire zucchero, cacao e una crescente varietà di prodotti, a prezzi via via più accessibili; e, infine, anche la carne”. Ma, sebbene vi siano stati anche in epoca preindustriale periodi in cui il consumo di carne ha conosciuto una discreta diffusione, sono stati soprattutto gli Stati Uniti a distinguersi come il primo paese in cui la carne è divenuta accessibile a chiunque, per povero che fosse. E questo soprattutto attraverso gli hamburger.

Peraltro, se è normale esaltare il grado di perfezione tecnologica dei prodotti più tecnologicamente sofisticati che il mercato offre ai consumatori, meno scontato è soffermarsi a riflettere su quanto elaborato e complesso sia, a suo modo, anche un prodotto apparentemente semplice e banale come un hamburger. “In essoosserva Rockwellsi combinano grano, cereali, formaggio e vegetali, in un semplice, delizioso confezionamento, pronto per un gradevole e veloce consumo. Sembra così semplice, eppure l’efficiente produzione di hamburger, in tutti i suoi dettagli, è di una complessità infinita. Solo il potere di coordinamento di un’economia di mercato può rendere possibile la sua realizzazione. Senza la libertà di contrattazione e di accumulazione del capitale, il diritto di proprietà privata, e il sistema dei prezzi, non ci sarebbe modo di mettere insieme le migliaia di processi produttivi necessari per realizzare un hamburger”.

Eppure, il prezzo di questo composito e sofisticato prodotto non supera che di pochi spiccioli il costo dei suoi ingredienti, a tutto vantaggio del più ampio spettro di consumatori. Come è possibile? Forse che i dirigenti della Mc Donald’s sono animati da chissà quale spirito altruistico, o da compassione per i più bisognosi? No, dice Rockwell, “la McDonald’s vorrebbe alzare i suoi prezzi. Ma non può farlo, fin tanto che deve fronteggiare i concorrenti, i quali compiono pericolose scorribande in territori che essa considera come propri”. Fino a quando l’industria dei fast-food sarà sottomessa alle leggi del mercato e della concorrenza, saremo noi clienti i veri re di questo business, e il sistema dei profitti e delle perdite rappresenterà il mezzo attraverso cui comunicare le nostre preferenze a coloro che forniscono i beni che quotidianamente consumiamo. Se non gradiamo il servizio di una catena di fast-food, è sufficiente che smettiamo di comprare i suoi prodotti, e ci rivolgiamo ad un’altra.

Il risultato, conclude Rockwell, è un “vasto, efficiente e produttivo processo che arreca beneficio a tutta la società”, compresi ovviamente i milioni di giovani a cui l’industria dei fast-food dà lavoro. Tutto ciò ha fatto dell’hamburger uno dei più diffusi e universalmente riconosciuti simboli di libertà e di benessere. Eppure, la libertà di scegliere, la sovranità del consumatore, l’efficienza nell’allocazione delle risorse, il benessere diffuso sono possibili soltanto a partire da quell’orientamento al profitto su cui si appuntano tanti facili moralismi: “le ragioni del profittoscrive ancora Montanariesigono che si mettano da parte antiche distinzioni e simbologie sociali, pratiche di esclusione e inveterate abitudini a considerare questo o quel cibo come destinato a ben precise categorie di consumatori[…] Nessuno, nell’Europa del capitalismo industriale e della libertà d’iniziativa, potrà più negare che tutti possano consumare molto, e un po’ di tutto”.

E’ stata la rivoluzione capitalistica, come diceva Mises, a deproletarizzare l’uomo comune, trasformando moltitudini di schiavi e di mendicanti in clienti che hanno “sempre ragione”. Ed è stata l’industria dei fast-food, non il comunismo, a mostrare agli uomini che “la possibilità di mangiare bene non è più una prerogativa dei soli benestanti”.

*Saggio risalente al 2004

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