di MATTEO CORSINI
Contrariamente alla vulgata mainstream, ritengo deleterio gran parte di ciò che finisce sotto l’acronimo ESG, ossia Enviromental, Social e Governance. Non perché le singole questioni non siano di per sé condivisibili, ma per come l’ESG sia l’ennesima frontiera dello statalismo e del corporativismo politicamente corretto che vuole imporre a tutti quanti anche come gestire le imprese e investire i propri risparmi.
Perché questo, grattata la patina di marketing di superficie, è l’ESG. E la cosa per me più indigeribile è che chi più si erge a paladino delle tematiche ESG spesso sarebbe il meno titolato a farlo. In fin dei conti è quanto accade quando si persegue uno scopo facendo ricorso a mezzi politici più che a mezzi economici.
E così le imprese non sono più giudicate in base alla loro capacità di produrre profitti fornendo beni o servizi che incontrano la domanda dei consumatori in un contesto di libero mercato, bensì in base a quanto sono conformi (nella forma ancor prima che nella sostanza) ai dogmi della religione ESG.
E i capi azienda, soprattutto nel caso di società quotate in borsa, devono ormai, volenti o nolenti, dirsi paladini della felicità di chiunque sia portatore di un interesse che sia vagamente in contatto con la società, con coloro che hanno investito i propri soldi (ossia gli azionisti) relegati in fondo alla classifica.
Tra i soggetti che meno digerisco in tutta la facenda ci sono indubbiamente quelle organizzazioni che fanno attività a cavallo tra la consulenza agli investimenti e la lobby sui decisori politici. Non di rado investono per conto di terzi e detengono partecipazioni in società quotate, finendo per imporre la loro linea anche quando detentori di pacchetti ampiamente minoritari. In alcuni casi neppure investono, ma forniscono agli investitori raccomandazioni su come votare nelle assemblee dei soci.
Perché sono forti dell’arma “reputazionale” se così la vogliamo definire. E quindi vanno moraleggiando, redigendo delle liste di cose da fare e da non fare. Ne è un esempio Federated Hermes, che con il suo «2022 Corporate Governance Principles Italy» afferma, tra le altre cose, che le aziende “dovrebbero riconoscere l’importanza della tassazione per il finanziamento dei servizi pubblici servizi pubblici da cui loro e i loro stakeholder dipendono e pagare il loro giusto contributo.”
Ovviamente non può mancare un monito con riferimento alla E: “Nel 2022 prenderemo in considerazione l’adozione di misure più severe nei confronti di quelle aziende che seguono strategie che non sono allineate al percorso di transizione in direzione di un’economia a basse emissioni di carbonio. All’inizio di quest’anno, la divisione internazionale di Federated Hermes ha sottoscritto l’iniziativa Net Zero Asset Managers, i cui firmatari si impegnano ad implementare una strategia di stewardship e di engagement, con una chiara politica di escalation e di voto, che sia coerente con l’obiettivo per cui tutti gli asset in gestione raggiungano emissioni nette zero entro il 2050 o anche prima.”
Che poi gli obiettivi siano realistici o meno, poco importa. Così come poco importa se la velocità con cui giungere a tali obiettivi, sempre ricorrendo a mezzi politici più che economici, genera conseguenze negative per ampie fette di popolazione.
Le azioni della setta ESG, in ultima analisi, sono l’ennesima occasione per un libertario per affermare che il fine non giustifichi i mezzi.