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Federico II e il falso Carroccio

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di GILBERTO ONETO

Qualche anno fa, in occasione  della mostra su Federico II, alcuni giornali, spinti da eccessivi ardori patriottici  hanno scritto che fra i cimeli esposti c’era anche quel che restava del Carroccio strappato in battaglia ai Milanesi nella battaglia di Cortenuova nel 1237. Il troppo amore per la (loro) patria e la sua “sacra” unità, il livore antipadano, la solita superficialità condita di servilismo politico hanno fatto commettere ai giornalisti-lacchè di regime una imprudenza: in realtà nella mostra non c’era traccia del Carroccio (che non era neppur menzionato dal catalogo) né poteva esserci perché, se mai era arrivato a Roma, era subito stato distrutto. Ma con tutta probabilità, come si vedrà, non c’era neppure mai arrivato. (1) C’era invece nella mostra, e c’è ancora in Campidoglio, una parte del monumento concepito per alloggiare il Carroccio e che ha dato il nome a una sala dello stesso palazzo.

Del monumento esiste una storia dettagliata. Costruito per sostenere il fantomatico Carroccio, questa specie di baldacchino, consistente in due colonne di marmo verde e tre di granito e in un architrave di marmo incisa, fu descritto come già danneggiato nella prima metà del XV secolo. (2) Se ne perdono poi le tracce per tre secoli fino al 1727, quando alcuni suoi resti ricompaiono vicino alle carceri capitoline : si tratta di due colonne di marmo verde antico che vengono ricomposte nella Sala dei Capitani in Campidoglio, dove si trovano tuttora. (3) L’iscrizione celebrativa  è stata invece a lungo conservata all’interno del Palazzo Senatorio e nel 1744 è stata trasferita sulle scale del Palazzo dei Conservatori e più di recente esposta nella sala detta appunto del Carroccio. Si tratta di un epistilio iscritto di6 metridi lunghezza e di36 centimetridi altezza. (4)

Il Carroccio non c’è più e in realtà non c’è mai veramente stato anche se una leggenda dura a morire sostiene il contrario. Si tratta di una balla costruita ad arte da Federico II in funzione autocelebrativa e propagandistica.

I fatti sono noti: Federico II è l’imperatore mezzo tedesco e mezzo terrone del Sacro Romano Impero (il  padre era Enrico VI, figlio del Barbarossa e la madre la principessa siculo-normanna Costanza di Altavilla). Fu allevato alla corte di Palermo dalla madre, rimasta precocemente vedova, che odiava i tedeschi ; impregnato di cultura araba, mediterranea e classica, aveva costruito, partendo da Palermo, il primo esempio di moderno stato accentratore e burocratico e, per questo, è tanto ammirato dai centralisti e dagli statocratici di tutti i tempi. Soppresse (o cercò di sopprimere) ogni potere intermedio esercitando il dominio diretto del potere centrale sui sudditi mediante una casta di burocrati e funzionari in larga parte siciliani e pugliesi.  “Fino ad allora il servizio imperiale era stato disimpegnato da uno o due legati tedeschi, e il governo cittadino da nobili dell’Italia settentrionale eletti podestà : ora, improvvisamente, si riversavano per tutta la penisola i pugliesi. Tutti i gradi della burocrazia vedevano un gran numero di gente di Puglia, abile e fidata – fedeltà garantita dalle famiglie e dai beni lasciati al sud – ; di modo che gli studenti bolognesi dicevano con sarcasmo di certe città, che esse, a causa delle loro discordie interne, erano adesso costrette a pagare il tributo a Cesare e a piangere sotto il giogo pugliese”. (5)

La burocrazia federiciana occupò ogni spazio: “accanto ai vicari generali e ai podestà imperiali, comparve presto un esercito di sottovicari, capitani di fortezza, funzionari di finanza, personale giudiziario e cancelleresco, e altri impiegati di grado inferiore”, non più composto da  “oppressori stranieri tedeschi ma da stranieri del sud”. (6)

Una politica del genere non poteva che portare Federico II in immediata rotta di collisione con le città padane così attaccate della propria autonomia, e insofferenti di poteri lontani e prepotenti, oltre a tutto rapaci, esosi e ladri. In più, questa situazione veniva a sovrapporsi a una vecchia inimicizia (risalente alle lotte contro il Barbarossa, mezzo secolo più addietro) e a lacerazioni mai rimarginate frala Padaniae il potere romano-germanico.

Per di più, se il Barbarossa era un prepotente dotato però di una riserva di ragionevolezza, suo nipote Federico era una sorta di invasato megalomane che si credeva la reincarnazione di Dio : chiamò Iesi, la cittadina vicina a Loreto dove era nato “la sua Betlemme” e “non mancò di paragonare la “divina madre” che l’aveva generato con la madre di Cristo”. (7) Odiava ferocemente i Lombardi e la loro voglia di libertà : la sua idea fissa era che “le dieci o dodici città della Lega erano le perturbatrici della pace mondiale”  e che “costringerle alla pace era compito demandatogli da Dio in persona”. (8)  Riteneva i Lombardi  dei malvagi e nutriva per loro un odio viscerale . Al re di Francia aveva scritto :”Non appena, negli anni che ci maturavano e nella forza ardente dello spirito e del corpo, ascendemmo, contro ogni umana aspettazione, per unico cenno della provvidenza divina, ai fastigi dell’impero romano […] ; sempre drizzammo l’acutezza della nostra mente a perseguire le offese fatte (dai Lombardi) al padre e all’avo nostro, ed a svellere i piantoni di empia libertà già attecchiti in altri luoghi”.  (9)

I Padani erano ribelli all’autorità ed eretici (molti di loro erano Patarini) e per l’invasato imperatore la guerra ai Lombardi si trasformava in una specie di guerra santa che doveva coinvolgere l’intero orbe terracqueo di cui si considerava signore e padrone e non riusciva a capire perchè il Pontefice lo ostacolasse in questa sua crociata di “giustizia imperiale”. “La guerra contro i Lombardi appariva quindi affare di tutto l’orbe : e pertanto l’imperatore invitò a una dieta a Piacenza anche i messi di tutti i re d’Europa, per potere, in comune, ridurre alla tranquillità quei pochi perturbatori della pace universale..” (10)  “L’atteso imperatore-messia, instauratore del regno della giustizia, doveva dunque mostrarsi come il rinnovatore dell’antico impero romano, della pace universale del princeps Augusto e dell’antica sistemazione del mondo sotto Roma imperiale”.  (11)

Era così ancora una volta Roma, l’eterna nemica della Padania, che si affacciava sulla nostra valle con la solita brutalità, per togliere ogni libertà  e ricchezza ai nostri popoli : e questa volta aveva il volto di un pazzo megalomane. Le sue armi sono state anche allora quelle di sempre : violenza, inganno e istigazione alle divisioni fratricide. Federico corruppe o illuse traditori e pavidi,  divise i Lombardi e mise assieme un esercito di avventurieri : cavalieri feudali tedeschi, siciliani, italiani, accanto a saraceni, fanti offerti dalle città fedeli all’impero e cavalieri e arcieri prezzolati dalla più varia provenienza. Contro di lui c’era la forte alleanza di Milano e Venezia, cui si erano unite Vicenza, Treviso, Padova, Mantova e poche altre città.

Il 27 novembre 1237  si scontra a Cortenuova  con l’esercito della Lega e lo batte conseguendo però una vittoria che non fu certo così sfolgorante o decisiva come la efficiente macchina propagandistica imperiale ha fatto credere. Federico è però sempre stato molto attento all’aspetto “propagandistico” delle proprie imprese e volle che quel limitato episodio bellico venisse descritto e festeggiato come una “grande vittoria”, così fin dal giorno dopo si cominciò attraverso documenti e “manifesti” dal tono piuttosto duro a diffondere la notizia che Federico aveva sbandato i rebelles e catturato il Carroccio milanese.  (12) Egli “esibì” in effetti un Carroccio su cui era legato il podestà di Milano Pietro Tiepolo, che era anche figlio del Doge di Venezia (incarcerato in Puglia sarà, con pompa mediterranea, sgozzato due anni dopo), lo fece trascinare da un elefante prima fino a Cremona e poi da muli (e non da tori bianchi, in segno di scherno) in una teatrale parata, durata molti mesi, che ha attraversato in segno di monito molte atterrite città. Il Carroccio arrivò a Roma nell’aprile del 1238, accolto in tripudio dal popolo in una cerimonia degna dei trionfi degli antichi imperatori, fu offerto al Senato romano e collocato in Campidoglio sulle 5 colonne di cui si è già parlato. (13)

Si è trattato di una perfetta messa in scena, fin troppo perfetta per un avvenimento che si è svolto nel bel mezzo di una guerra. E, in effetti, c’era il trucco. Nella realtà i Milanesi avevano fatto in tempo a smontare il loro Carroccio e a portarsi via le parti più importanti del prezioso veicolo, fra cuila Croce.  AFederico non restò che raccogliere la mattina dopo la battaglia, sul campo, fra la mota quello che i Milanesi il giorno prima non avevano portato via. Galvano Fiamma (1283-1344) sostiene che si sarebbero trovate solo le ruote del vero Carroccio. (14)  Della stessa opinione sono l’umanista Giorgio Merula (1430-94) e la storica Margherita Guarducci. (15) Appare probabile che il Carroccio portato a Roma fosse in realtà solo una collezione di relitti o addirittura un carro costruito lì per lì con una frettolosa operazione di collage. In ogni caso non era il Carroccio milanese. (16)

I pezzi di legno collocati con tanta pompa in Campidoglio non ebbero vita né lunga né gloriosa perché furono quasi subito bruciati dai Romani, si pensa su istigazione del Papa e in odio a Federico, dopo l’effimero entusiasmo per quella pompata vittoria.  (17) Di certo, del Carroccio non c’era più traccia nella già citata descrizione del XV secolo. La pittoresca sceneggiata mediterranea non ha in ogni caso portato molta fortuna a Federico : dopo la infelice giornata di Cortenuova, non solo  Milano non si arrende ma moltiplica il vigore della lotta e il suo coraggioso esempio è presto seguito da Alessandria, Brescia, Piacenza, Bologna e Faenza che riformano con baldanza la Lega. Infuriato dall’eroica caparbietà dei Padani e dal (per lui) pericoloso esempio di “pazzesca libertà” che rappresentano, Federico attacca nel 1238 Brescia. Per farlo mette assieme la più grandiosa congrega di prepotenti della storia umana, convincendo tutti i tiranni del tempo chela Lega è un pericolo per tutti. Conviene, per questa incredibile ed entusiasmante pagina della nostra storia, riportare la descrizione testuale del Kantorowitz.

  • Federico II trovò effettivamente audienza al suo appello presso i monarchi, che dovevano ben presto mettergli a disposizione forze ingenti. Sicilia e Germania si misero in armi, e le diete di Torino, Cremona e Verona misero in movimento tutto il territorio dalla Borgogna alla marca trevisana.
  • La primavera del 1238 scese dal nord a Verona re Corrado coi tedeschi, ed entro l’estate si radunarono ingenti truppe, di modo che Federico si trovò ad avere l’esercito maggiore, e il più vario, che mai avesse comandato. Accanto ai mercenari, ai cavalieri e ai saraceni di Sicilia, ai cavalieri tedeschi di re Corrado, alle milizie di Firenze e di Toscana, ai cavalieri della nobiltà dell’Italia settentrionale, ai guerrieri della parte imperiale della Lombardia, di Roma, delle Marche, della Romagna ; accanto alle fanterie delle città imperiali e al contingente burgundo di cavalleria (che ora per la prima volta avrebbe combattuto al servizio dell’impero sotto il comando del conte di Provenza), v’erano truppe mandate da quasi tutti i monarchi del mondo : non mancavano né quelle del re d’Inghilterra, né quelle del re di Francia ; persino il re di Castiglia e Bela d’Ungheria avevano inviato un contingente. Né avevano voluto essere da meno i monarchi d’oriente : nell’esercito imperiale militavano infatti greci (mandati da Giovanni Vatatzes, imperatore di Nicea) e arabi (inviati in Italia dal sultano Al-Kamil).
  • Seguiva questa massa imponente, come salmeria, tutta la corte esotica dell’imperatore, compreso il serraglio degli animali ; di maniera che si pensava l’Italia non avesse visto l’eguale dai tempi dei giochi del circo e s’andava col pensiero agli elefanti da combattimento di un Alessandro e d’un Antioco, dei quali si leggeva nei romanzi e nella Bibbia. Non era l’esercito di un condottiero romano, seguito dalle sue legioni saldamente inquadrate a passo cadenzato, bensì il corteggio del cosmocratore, padrone di uomini e fiere di ogni paese : come il Gran re persiano aveva un giorno guidato le sue genti contro le città greche, così ora Federico II puntava con le sue schiere contro la piccola, arroccata Brescia, la quale sarebbe dovuta cadere al primo assalto.
  • Era prevedibile un assedio, tuttavia ; e l’imperatore si vantava delle sue macchine belliche. Un ulteriore aiuto gli sarebbe dovuto venire da un ingegnere spagnolo, Calamandrino, particolarmente esperto nella fabbricazione di arieti e ordigni del genere. L’aveva inviato all’imperatore, in catene perché non fuggisse, Ezzelino.
  • Sfortuna volle che lo spagnolo andasse a cadere nelle mani dei bresciani, i quali, come si narra, si affrettarono a regalargli case e poderi in quel di Brescia, oltre a una donna per moglie, affinchè esercitasse la sua arte a favore della città assediata. La campagna era cominciata così con un colpo di sfortuna e all’imperatore non riuscì più di costringere la sorte in suo favore. Nonostante scaramucce vittoriose nel bresciano e malgrado il valore di tutte le truppe – fra le quali si distinsero gli inglesi – , l’assedio della città non faceva un passo avanti. Non riuscì neppure un assalto : le armi da getto di Calamandrino, che colpivano con la massima precisione, distruggevano gli ordigni bellici dell’assediante ; e quando l’imperatore, per proteggersene, fece legare alle macchine d’assalto prigionieri bresciani, gli assediati non se ne curarono, vendicandosi all’identico modo coi prigionieri imperiali.
  • I crudeli combattimenti si protrassero per settimane : dopo quattordici giorni Federico, che aveva contato, date le sue forze, su un rapido successo, cominciò ad avviare trattative, ma i bresciani non risposero alle offerte. (…) Dopo altre vane offerte e dopo un ultimo assalto fallito, l’imperatore tolse finalmente l’assedio (dopo due mesi, in ottobre) ; le milizie ausiliarie straniere furono congedate, meno i cavalieri tedeschi : l’impresa per cui ci si era tanto adoperati era fallita e prendeva quasi i colori di una sconfitta. Si preparava così una grave crisi.
  • Il successo di Cortenuova aveva destato gli amici, l’insuccesso di Brescia destò i nemici dell’imperatore. I lombardi videro di quali forze fossero capaci le loro città e ripresero fiducia più che mai in sé stessi”. (18)

Lo stesso anno Genova e Venezia si alleano e si uniscono alle città della Lega. Federico cerca una rivincita attaccando la piccola ed eroica Faenza che si arrende solo il 14 aprile 1241, dopo 8 mesi di assedio. Ma non serve a fare recedere nostri neanche di un passo : l’imperatore torna in Sicilia a riorganizzarsi e, dopo qualche anno ci riprova. Nel 1247 cinge d’assedio Parma  che resiste, assistita dalle altre città ; Federico costruisce di fianco a Parma una nuova città che battezza, con la solita arroganza, Victoria. Dopo mesi di inutili attacchi da parte dell’esercito imperale, il 18 febbraio 1248, i  Parmensi e i loro alleati fanno un’abile e temeraria sortita che ribalta definitivamente le sorti della battaglia e della guerra, prendono la nuova città dal nome poco felice e la radono al suolo, catturano il Carroccio dei Cremonesi, alleati di Federico, e se lo portano (questa volta per davvero) a Parma a dorso d’asino rispondendo con una vera cattura (e umiliazione) alla pagliacciata di nove anni prima. Federico fa appena in tempo a darsela a gambe con 14 cavalieri superstiti.

E’ la fine dei folli progetti di un imperatore che si credeva onnipotente: l’anno successivo, vicino alla Fossalta, i Bolognesi sconfiggono l’ultimo esercito imperiale e ne catturano il comandante, Enzio, figlio dell’imperatore-dio e lo tengono in dorata prigionia fino alla sua morte, avvenuta ventitrè anni più tardi.

Federico II muore invece quasi subito, il 13 dicembre del 1250: neppure mobilitando re ed eserciti e arrogandosi improbabili facoltà divine, il padrone del mondo, il più potente sovrano della terra non è riuscito a piegare la resistenza di un popolo attaccato alle sue libertà e orgoglioso delle sue autonomie. Anche quella volta i Padani hanno corso il rischio di essere divisi e disfatti ma hanno invece dimostrato che nessuno li può vincere e privare della libertà, se combattono uniti. A Roma rimangono i patetici resti di una inutile e vanagloriosa messa in scena. Quello che avrebbe dovuto essere il monumento alla superbia imperialista è in realtà diventato il segno della forza degli ideali di libertà e indipendenza dei popoli padano-alpini. Per questo un giorno quelle pietre dovranno essere consegnate alla Comunità dei popoli padani come segno di riconoscimento delle loro riconquistate libertà.

(1) Catalogo

(2) Lo descrive Nicolò Signorili, autore di una Descriptio Urbis Romae eiusque excellentia dedicata al papa  Martino V. Il Signorili ha anche ricopiato abbastanza correttamente l’epigrafe.

(3) Si tratta di due colonne di “verde antico”, un marmo piuttosto prezioso proveniente dalla cava tessalica di Atrax, perciò detto anche marmor Thessalicum o Atracium. Provengono certamente dalle rovine di qualche costruzione antica ; solo i capitelli sono di fattura medievale. Delle altre tre colonne di granito grigio (proveniente dalle cave egizie del mons Claudianus) se ne è forse ritrovata una, che oggi (poco gloriosamente) regge una copia della lupa capitolina all’ingresso del palazzo senatorio. Margherita Guarducci, “Federico II e il monumento del Carroccio in Campidoglio”, su Xenia,     (VIII) 1984, pagg.83-94.

(4) L’epigrafe è incisa con caratteri di tipo “capitale” con alcuni elementi gotici, alti 6 centimetri. E’ preceduta da una croce radiata (un segno “orientale”) e si sviluppa su tre righe sovrapposte. L’iscrizione è in latino : Cesaris Augusti Friderici, Roma, secundi dona tene currum perpes in Urbe decus. Hic Mediolani captus de strage triumphos Cesaris ut referat inclita preda venit. Hostis in opprobrium pendebit, in Urbis honorem mictitur, hunc Urbis mictere iussit amor.  (“O Roma, mantieni come dono di Federico secondo Cesare Augusto, a perpetuo ornamento nella Città, questo carro. Esso, preso a Milano dalla sanguinosa battaglia, viene a te, insigne preda, a rappresentare i trionfi di Cesare. Penderà a vergogna del nemico, è mandato in onore della Città ; l’amore della Città comandò di mandarlo”). Margherita Guarducci, “L’iscrizione sul monumento del Carroccio in Campidoglio e la sua Croce radiata”, Xenia, (XI) 1986, pagg.75-84.

(5) Ernst Kantorowicz, Federico II imperatore (Milano : Garzanti, 1988), pagg. 486, 487.

(6) Ibidem Al vertice di questa complessa struttura burocratica (prevalentemente pugliese) si pone un ristretto clan di potere (principalmente composto da siciliani e da congiunti di Federico II)  dalle connotazioni molto simili a quelle mafiose o di certe associazione malavitose e politiche dei nostri giorni : “Emergono così d’improvviso nell’amministrazione italica i nomi già noti dei giovani siciliani di bell’ingegno : i Filangieri e gli Eboli, gli Acquaviva e gli Aquino, i Morra e i Caracciolo ; e accanto a questi, i figli dell’imperatore : Enzio e Federico d’Antiochia, il poco noto Riccardo di Theate e, in seguito, re Enrico, figlio di Isabella di Inghilterra ; quindi i generi di Federico, che avevano avuto in moglie le sue figlie illegittime : Ezzelino da Romano, signore della marca trevisana, e Giacomo del Carretto, marchese di Savona, e Riccardo di Caserta e Tommaso d’Aquino juniore ; infine i marchesi Galvano e Manfredi Lancia, e il conte Tommaso di Savoia, parenti dell’imperatore per mezzo di re Manfredi”. Ernst Kantorowicz, op. cit., pag. 487.

(7) Ibidem, pag.7

(8) Ibidem, pag. 421. Giova anche ricordare come Federico si riferisse a sé stesso come “l’Unto dal Signore”.

(9) Ibidem, pag. 422.

(10) Ibidem, pag. 422.

(11) Ibidem, pag. 424.

(12) Historia diplomatica Friederici Secundi, ed. di J.L.A. Huillard-Bréholles, vol. 5/1 (Paris, 1857-59). Citata in : Ernst  Voltmer, Il Carroccio (Torino : Einaudi, 1994), pagg. 221 e 222.

(13) E’ interessante notare come i cronisti dell’epoca abbiano descritto gli avvenimenti con sospetta uniformità di immagini : la potente macchina propagandistica imperiale deve avere allora inventato le “veline” dell’informazione di regime. “Tunc etiam Mediolani potestas filius ducis Venetum captus est. Similiter et carrochium cepit et Cremonam duxit” (Ryccardus de S. Germano, M.G.H. SS XIX, pag.375) “Eodem namque mense mandavit imperator Romam carocium Mediolani super mullos qui illud portaverunt, cum multis signis et vexillis et tubis per partes Pontremulli” (Annales Placentini Gibellini, M.G.H. SS XVIII, pag.478) “..et carocium Mediolanensis eis astilit et eum mixit Romam” (Annales Parmenses Maiores, M.G.H. Ss XVIII, pag.669) “Et eodem anno factum fuit prelium Curtis-nove per imperatorem Federicum, et captum fuit carocium Mediolani” ( Annales Cremonenses, M.G.H. SS XXXI, pag.17) “…et capto potestate eorum cum carezolo conversi sunt, et imperator misit suprascriptum carezolum (Romam)” (Annales Bergomates, M.G.H. SS XXXI, pagg.333-334) “Et eo anno die quarto exeunte Novemb. Mediolanenses vero ad exercitu imperatoris devicti et mortui fuerunt, et suum carocium apud Curtemnovam amiserunt ; et etiam filius ducis Veneciarum, qui tunc temporis erat potestas Mediolan., captus fuit et in civitate Cremone in carceribus ductus fuit.” (Alberti Milioli Notarii Regini Liber de Temporibus, M.G.H. SS XXXI, Tomus II, pag.512). Alla fine del XV secolo, la storiella è stata ripresa e “codificata” nella sua versione più nota e apologetica da Pandolfo Collenuccio, significativamente considerato uno dei progenitori del meridionalismo, nel suo Compendio delle historie del regno di Napoli (Venezia, 1539).

(14) Galvano Fiamma, Chronicon extravagans et Chronicon majus, citato in : Ernst  Voltmer, op.cit., pag.209. Si vedano anche: L.A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, XI, Mediolani 1827, coll.673 s. e Id., Flamma, vissuto nel medesimo secolo XIII. Annali d’Italia, VII, Milano 1744, pag.238.

(15) “Quidam captum quoque fuisse Madiolanensium carrotium dicunt ; alii partem tantum eius ferunt : opinantes pridie ad Henrico Moguntiaco post afflictas opes laceratum, et ornamentis omnibus detractis carrum ibidem relictum, quem Fridericus trophaei morem ad amicas civitates miserit. Captum vero constat Teupolum Praetorem et Elephanto impositum per urbem Cremonam et Laudem circumductum”. Georgii Merulae Alexandrini Antiquitatis Vicecomitum libri X, Lovanio 1704, pag.286. “In realtà la vittoria venne, a quanto risulta, un po’ esagerata e il Carroccio si ridusse a qualche resto raccolto la mattina dopo sul campo di battaglia, fra la mota, quando le parti più importanti del prezioso veicolo, fra cui la Croce, erano già state portate in salvo il giorno prima dai guerrieri milanesi.” Margherita Guarducci, “Federico II e il monumento del Carroccio in Campidoglio”, op.cit., pag.83.

(16) Che si trattasse di parti e non di un Carroccio intero lo si deduce anche dalla fattura del monumento capitolino che serviva a esporre degli oggetti appesi e non a sorreggere un oggetto tridimensionale di grandi dimensioni. La fattura del monumento sembra dare ragione alla tesi di Galvano Fiamma che limitava alle ruote il bottino effettivamente catturato. Anche su questo punto però i conti non tornano : secondo lo storico Girolamo della Corte, citando Bernardino Corio, dopo la battaglia di Cortenuova, Federico “a Veronesi donò le ruote del Carroccio de’ Milanesi, e volle che a perpetua memoria di così felice impresa fossero, come piace al Coiro, poste sopra quattro alte colonne nella Città”. Le ruote furono spartite o nella foga i propagandisti di Federico avevano acceduto nel procurarsi ruote di Carroccio? Girolamo della Corte, Dell’Istoria della città di Verona, vol. I (Venezia, 1744), pag.314.

(17) L’incendio dei resti del Carroccio è attestato dalla Cronaca di Fra’ Salimbene de Adam : “Et eodem anno, die quarto exeunte Novembre Mediolanenses ad exercitu imperatoris devicti et mortui fuerunt, et suum carrocium apud Curtem-novam amiserunt ; quod misit Romam imperator, sed Romani conbusserunt illud in vituperium Friderici” Cronica Fratris Salimbene de Adam Ordinis Minorum, M.G.H. SS XXXII, pag.95. Il fatto è descritto anche da : Paolo Rezzi, Roma e l’impero medioevale  (Bologna : Licinio Cappelli Editore, 1948), pag. 434.

(18) Ernst Kantorowitz, op. cit., pagg. 463 e 464.

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