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Il fiasco in borsa di ferrari e gli errori di marchionne

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ferraridi GERARDO COCO

Nell’ottobre del 2015, la Ferrari concludeva la sua Ipo (initial public offering) quotandosi al NYSE sotto il codice RACE e ai primi di dicembre si quotava anche alla borsa di Milano. L’Ipo è un’offerta al pubblico dei titoli di una società che si quota per la prima volta. L’obiettivo era di raccogliere $900 milioni cedendo il 10% del pacchetto azionario dei proprietari e creare il flottante. Il  prezzo di apertura di $52 portava il valore della società a $9.8 miliardi, circa 14 volte gli utili prima di interessi, tasse e ammortamenti, collocandola tra la BMW e Hermes o Cucinelli, noti marchi del lusso. Marchionne infatti dichiarava che la Ferrari non aveva nulla a che fare con il settore e i problemi dell’auto e doveva essere valutata come un titolo del “lusso”. Al momento della contrattazione il titolo saliva a $60.97.

Ma poi doveva subentrare la realtà a ridimensionare le cose. Il primo di febbraio 2016 il titolo è sceso a $34.68 perdendo, nel giro di quattro mesi dal debutto, più del 40%. Nel momento in cui scriviamo si aggira sui $38. Il motivo sarebbe dovuto alla diminuzione, proprio dopo l’Ipo, dei ricavi e profitti netti che erano aumentati fino al settembre 2015.

Il presidente della Ferrari, Sergio Marchionne ha commentato: “Calo incomprensibile del mercato”. Se fossimo stati in un periodo di stabilità finanziaria il suo stupore sarebbe stato giustificabile. E’ normale che dopo la quotazione ci siano delle correzioni. Ma questi non sono tempi normali. Innanzi tutto, l’entrata in borsa comporta sempre degli shock: le public companies devono subito fronteggiare un’immediata e continua pressione sui risultati di breve periodo poiché il mercato azionario, che è un mercato di massa, recepisce solo la redditività immediata e trascura altri elementi meno percepibili capaci di promuovere quella a lungo termine. Questa sensibilità all’immediato si accentua in tempi di volatilità: un mercato azionario salito dal 2008 del 150%, completamente slegato dai fondamentali, gonfiato dalle politiche delle banche centrali e trainato solo da pochi titoli principali come Facebook, Amazon, Apple, Netflix e Google, punisce brutalmente cali di performance. Inoltre, in un periodo in cui la borsa è già ai massimi livelli, non c’è spazio per la crescita dei valori azionari. Avere ignorato tutto questo è stato il primo grave errore di Marchionne e del suo staff, permettendo al mercato di umiliare il brand globale più noto a livello mondiale come se fosse una start up. Si sono dimenticati che il mercato non compra marchi, ma “utili per azione”.

Il secondo, grave errore, è di non aver previsto il calo del mercato più importante per la Ferrari, quello cinese dove le vendite sono crollate del 22%. Insomma, i responsabili della casa di Maranello si sono comportati da dilettanti provinciali smaniosi di entrare in borsa unicamente per il prestigio, come se la Ferrari avesse bisogno della quotazione per ottenerlo.

marchionne 6Ora, quale sarà il suo futuro borsistico? Non roseo secondo noi, perché il terzo e più grave errore che Marchionne ha commesso, di marketing, coinvolge, purtroppo, il lungo termine. Una riflessione approfondita sul modello di business dell’azienda avrebbe addirittura dovuto sconsigliare la quotazione. Il paragone fra Ferrari e i marchi di lusso del settore di consumo, di una superficialità incredibile e preso sul serio da analisti e stampa, è stato completamente fuorviante. 

Ci spieghiamo. Il successo in borsa dipende da tre fattori. Primo: il potenziale del mercato in cui l’impresa opera. Più grande è il mercato e più veloce il tasso di crescita, maggiore è il potenziale di sviluppo dell’impresa, maggiore il cash flow e minore l’indebitamento. Secondo: la stabilità, che si verifica quando gli aumenti di fatturato si traducono in aumento di utili e affinché ciò avvenga l’impresa deve incrementare la clientela e acquisire ordini ripetitivi. Terzo: l’innovazione continua, per mantenere i vantaggi competitivi che attraggono clienti e ordini. Sono questi aspetti che, nel lungo periodo assicurano dividendi agli azionisti e aumentano il valore azionario. Aziende come Hermès o Cucinelli pur operando nel settore del lusso, vendono pur sempre centinaia di migliaia di prodotti all’anno ed è questa ampia base di clienti con alta frequenza di acquisto ad assicurarne la crescita. Inoltre i loro prodotti non sono acquistati solo dai benestanti: anche chi ha un reddito modesto può premettersi, ogni tanto, una borsa Hermes o un cashmere Cucinelli. 

Ma questo non si verifica affatto per la Ferrari che vende poco più di 7000 auto all’anno a un pubblico ultra elitario e a un prezzo che parte da 200mila euro. Per aumentare la base dei clienti, la Ferrari dovrebbe scendere di molto nel prezzo ma allora non sarebbe più un prodotto esclusivo e sacrificherebbe l’immagine. Non è stato uno dei temi dell’Ipo: “Delle dieci auto più care mai vendute nel mondo nove sono Ferrari”? Paradossalmente il successo del Cavallino rampante sta nella restrizione del mercato, non nell’espansione dei volumi. Il cliente Ferrari è attirato dall’esclusività delle auto che l’azienda protegge proprio limitando il numero degli acquirenti e dei modelli, mantenendo a tal fine e deliberatamente, una lista d’attesa per combinare l’idea del lusso con quella della rarità che trovano espressione nella politica dei prezzi. 

Se non si possono incrementare troppo volumi e clienti, come fa allora a crescere la Ferrari? Solo con aumenti di prezzo ma non appena gli investitori ne saranno consapevoli avverrà il grande fiasco. Alle aziende redditizie ma che non posseggono il requisito dell’incremento veloce della clientela e della ripetitività degli ordini, come Ferrari, non si addice la quotazione di borsa. Del pari, non avrebbe successo la quotazione di una immobiliare che vende ville super-lusso o un’azienda che vende oggetti d’arte per intenditori. Nell’agosto del 2014, a un’asta californiana, una 250 GTO Berlinetta è stata venduta a $38.1 milioni. La Ferrari è un marchio iconico che non doveva essere esposto alle intemperie di una borsa dove è il mercato anonimo a determinare il prezzo del titolo. 

Allora cosa avrebbe dovuto fare Marchionne per rastrellare i $900 milioni per lo sviluppo dell’azienda? Semplice, per il solo 10% avrebbe dovuto ricorrere al mercato del private placements, collocandolo presso una cerchia ristretta e selezionata di investitori privati o istituzionali che non avrebbe fatto fatica a trovare. Persino un governo, magari uno fra quelli che ospitano i campionati di formula uno, sarebbe stato disposto ad acquistare il pacchetto. Si sarebbe pure risparmiato sugli enormi costi di collocamento dell’Ipo. Ma Marchionne e il suo entourage non hanno resistito alle sirene della borsa e hanno scambiato la quotazione per un concorso di bellezza, dove, cercando di vendere sogni a un mercato di massa, si possono raccogliere incubi. C’è solo da sperare che l’andamento del mercato azionario non peggiori a tal punto da indurre al delisting, cioè al ritiro del titolo per evitare ulteriori umiliazioni e salvaguardare l’immagine di chi ha vinto più campionati del mondo. 

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4 COMMENTS

  1. Oppure è un modo, per danneggiare il cavallino, per poi altri papparselo?
    Di questi traditori, o se vogliano 5° colonne al servizio straniero, ne abbiamo a iosa.
    Non hanno fatto così in altri casi?

  2. interessante analisi, credo che Coco, abbia analizzato bene la questione. Il 40% perso sono sicuramente un segnale allarmante per il cavallino.

  3. ma non ha messo in cantiere anche una Ferrai blu? …a mio avviso ‘na sciocchezza.. chissà se fa per aumentare la rossa… a questo punto dovrebbe… stiamo a vedere.. per noi che siamo fuori è solo spettacolo!

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