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Gloria! Alla Serenissima (e non solo a quella)

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di PAOLO BERNARDINI

I film storici sono tanto più piacevoli, quanto meno si ispirano ad una idea di “precisione” e filologia nella ricostruzione degli avvenimenti, qualità che neppure gli storici professionisti possono garantire. Il disastroso “Napoleone” di Ridley Scott (speriamo non sia il testamento di un grandissimo Maestro) ne dà ampia testimonianza. Un bene, dunque, quando i registi si lasciano prendere dall’estro dell’invenzione, e nel caso di cui parlerò anche dell’armonia, per trasportarci in mondi che solo in parte vengono fedelmente ricostruiti, quel poco che è necessario per condurci, magari, nella Laguna veneziana a neppur tre anni da Campoformio, tre anni scarsi dalla perdita di quella millenaria libertà che non è stata – per ora – ancora ritrovata.

Non conoscevo Margherita Vicario e per dire la verità neppure il suo film, “Gloria!”; mi ci sono imbattuto per caso, in cerca di qualche filmico svago in quel di Como, in un sabato di vento e sole, vagamente, solo, primaverile. E’ stata, lo confesso, una bellissima sorpresa.

Pensare di far nascere la musica pop in un convento di Sant’Ignazio nella laguna divenuta bruscamente austriaca, nell’anno in cui termina il Conclave apertosi nel 1799 nel clima tempestoso delle secolarizzazioni – esiste una Chiesa di Sant’Ignazio, inaugurata però nel 1970, al Lido, e ben la conosco – vuol dire avere una bella inventiva. Ma non solo quello: dedicare il film a tutte quelle orfanelle compositrici di musica sacra negli orfanatrofi di Venezia chiusi violentemente nel 1807 per decreto napoleonico – l’ultimo periodo francese a Venezia è stato quello più disastroso nei 1600 anni di vita della città, fondata, dice la leggenda (col coro della Storia) nel 421 e.v. – e definirle “fiori seccati nelle pagine della storia” perché nessuno parla di loro, ebbene, tutto ciò mostra una sensibilità non comune, una “pietas” storica che neppure gli storici, normalmente, possiedono (almeno, non tutti).

Dunque, gli amanti della musica saranno soddisfatti, si parla perfino dei primi pianoforti tedeschi ideati da Johann Andreas Stein, gli strumenti che incuriosiranno Mozart. Ma omaggiare il pianoforte nella post-Serenissima è anche ricordare che proprio un suo suddito, il padovano Cristofori, ne concepisce i primi esemplari a fine Seicento – un secolo prima del periodo di ambientazione del film: Bartolomeo Cristofori, costruttore di clavicembali, a servizio dei Medici, inventa lo strumento forse nel 1702, utilizzando l’innovativa tecnica della meccanica a martelletti.

Che poi il genio musicale, l’orecchio assoluto al centro della storia sia una Teresa che viene da un paese lontano ove i francesi hanno sterminato tutta la sua famiglia, che al neoeletto papa Pio VII – papa Chiaramonti, di Cesena più o meno come Raul Casadei – sia propinato un concerto rock nel mezzo della laguna nella primavera 1800, che il “governatore” austriaco muoia di infarto nell’ascoltarlo, che si formi una band di sole donne (gli uomini arrivano dopo) che poi fanno un tour in Europa (passando dalla Svizzera, quella sempre libera, di Madame de Staël…), ebbene tutto questo mette grande allegria. In fondo siamo nel secolo nuovo appena nato, quel 1800 che apre alle “magnifiche sorti e progressive dell’umanità” – ma non di Venezia. Il Conclave si radunò sull’isola di San Giorgio Maggiore, a Pellestrina vi è, sulla laguna, un’umile dimora che fu quella di Pio VII, finché vi rimase.

Insomma, un film da vedere. Non attribuisco certo alla giovane Margherita Vicario le idee indipendentistiche che sono le mie. Siamo davanti ad un leggero giuoco di invenzione, riuscito benissimo. La luce immortale della Serenissima, piena anche di estro, di rivoluzioni musicali, di innovazioni in ogni campo, non è spenta oggi, nel 2024, figuriamoci se lo era nel 1800. Dispiace solo che la scena finale col concerto pop e lo scompiglio che genera non sia durata un po’ di più; e non credo che Pio VII esausto dalla lunga contesa avrebbe davvero “scomunicato” tutti e tutte, per prime le suonatrici, in quella primavera di incertezza. Non era in fondo lui che aveva pronunciato, per adeguarsi ai tempi, quelle celebri rivoluzionarie (arditissime) parole: “La forma di Governo Democratico adottata fra di noi, o dilettissimi Fratelli, no non è in opposizione colle massime fin qui esposte, né ripugna al Vangelo; esige anzi tutte quelle sublimi virtù, che non s’imparano che alla scuola di Gesù Cristo, e le quali, se saranno da voi religiosamente praticate, formeranno la vostra felicità, la gloria e lo splendore della nostra Repubblica”? Era il Natale 1797, queste frasi vagamente sinistre le pronunciò nell’omelia da lui tenuta nella cattedrale di Imola. Parole che pesano. E che forse, ai miei occhi almeno, non gli rendono grande onore.

Lieto anche che in coincidenza con questo film davvero riuscito, il mio allievo Davy Marguerettaz, fresco di dottorato in Storia all’Insubria, stia per dare alle stampe un volume su quel particolarissimo Conclave: “Politica e religione a Venezia in età napoleonica: il conclave del 1799-1800”, che uscirà presto presso Città del Silenzio di Genova.

Venezia, anche schiava, rimane sempre, in qualche modo, la città della libertà. E che in modi diversi giovani come Margherita e Davy le rendano omaggio, ognuno con i propri particolari strumenti, non è cosa da poco. Lascia barlumi di speranza.

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