di GILBERTO ONETO
Inutile nascondere che quella scozzese sia arrivata come una sgradevolissima doccia. È vero che è stata una bella prova di democrazia, è vero che il 45% dei voti è un risultato straordinario se si pensa alla radicalità della scelta (e allo scarso coraggio che molti hanno non solo in Val padana ma anche sulle Highlands), è vero che in ogni caso gli scozzesi avranno più autonomia: tutto vero e tutto bello ma è stata una sconfitta! Nessuno onestamente poteva dare per sicuro qualcosa di diverso ma a un certo punto molti di noi un soave pensierino l’avevano fatto. Sarebbe stato un bel colpo. Si dice che lo sia stato comunque e che si deve andare avanti con più vigore. Si va avanti perché non c’è scelta.
La vicenda scozzese non porta nessun elemento nuovo nelle considerazioni che si devono fare sulla lotta per la libertà: di sicuro rafforza parecchi vecchi elementi oggettivi.
Primo. “La secessione non è un pranzo di gala”. Nessuno può permettersi di pensare che sia una facile passeggiata, che basti presentarsi a Venezia con un sanguis e una bottiglietta di acqua del Po, come un qualsiasi turista della domenica, e proclamarsi indipendenti. È un percorso lungo e difficile che deve passare attraverso il convincimento della metà più uno dei membri della comunità, che devono essere sicuri di quel che succede e di quel che vogliono, e devono essere abbastanza coraggiosi da esprimere la loro volontà anche dentro una cabina. Ci vuole una costante opera di informazione, di convinzione, di apertura di occhi e di cuori, di formazione di coscienze robuste e di acquisizione di consenso tosto. Tutto difficile in assoluto, e difficilissimo per un popolo di tifosi del pallone e di Sanremo, di servi per vocazione (ricordate le straordinarie pagine di Miglio?), pavidi per tradizione e boccaloni.
Secondo. Non si deve mai sottovalutare lo strapotere degli avversari né la loro potenza di fuoco mediatico o le loro capacità ricattatorie. Nel caso del referendum scozzese si è visto di tutto: minacce, promesse, ricatti e sparate. I sodali europei di Londra, terrorizzati, si sono affrettati a disegnare scenari apocalittici di isolamento ed emarginazione. I grandi poteri finanziari hanno prospettato miseria e catastrofe economica. Il presidente di un paese nato da una secessione del Regno Unito ha “intimato” agli scozzesi di restare dove sono. Non è la prima volta che l’America prende posizioni del genere: si ricorda che Wilson – che pure si presentava come l’ideologo dell’autodeterminazione – era ferocemente nemico dell’indipendenza irlandese. Era figlio di un bigotto orangista dell’Ulster. Giusto per la cronaca: la bandiera sudista derivava dalla Croce di Sant’Andrea scozzese.
Terzo. La libertà fa paura a tutti i mascalzoni della terra che si rifugiano – come aveva scritto Samuel Johnson – nel patriottismo, in tutti i patriottismi nazionalistici, meglio se di nazioni inventate. Il referendum scozzese ha tolto il sonno a tutti costoro per qualche settimana. La sgaggia fa fare cose abnormi: trasforma la gravidanza della principessa del Galles in propaganda unionista (la signora Napolitano è un po’ avanti negli anni ma forse – grazie ai prodigiosi progressi della scienza – un bebè al Quirinale potrebbe aiutare l’articolo 5 della Costituzione più bella del mondo), va vibrare il grembiulino di Barroso e fa dire ad Enrico Letta colossali sciocchezze sulla Grande Guerra. Domenica sul Corriere, Aldo Grasso ha intinto la penna nel livore e nella strizza per spiegare che la sconfitta del “sì” è stata causata dalla presenza di Salvini a Edimburgo. Prodigioso.
Quarto. Gli unionisti e gli statalisti sono prepotenti con i deboli e bari con i forti. Piagnucolano e promettono quando sono in difficoltà. Cameron ha prospettato agli scozzesi un radioso avvenire di autonomie e libertà: adesso comincia a rimangiarsi le promesse. Circolano su Internet filmati che documentano brogli negli scrutini: se sono veri è ignobile, se sono falsi sono brutti segnali di un clima che si sta arroventando. Da noi Berlusconi e tutto l’italianume politico hanno per anni spergiurato di essere federalisti e autonomisti e i risultati sono piuttosto evidenti. La sinistra – un tempo di Turati, Grieco, Gramsci e Fanti – non prova neppure più a fingersi autonomista.
Quinto, ultimo ma non ultimo. Gli indipendentisti sono troppo spesso velleitari, sopravvalutano le proprie forze e tendono a dividersi, frantumarsi e a litigare fra di loro. Il caso padano è emblematico: sempre Miglio era stato chiarissimo sul problema dei rapporti di forza e nel dimostrare che solo uniti i padani hanno la massa d’urto necessaria per scontrarsi vittoriosamente con lo Stato italiano. Se il padanismo è difficile, i micronazionalismi micraniosi sono svolazzi onirici, il frazionismo spocchioso è suicida, e il distinguismo cadregaro è criminale.
Golia è grosso e vince “quasi sempre” di suo. Se poi si ammanetta, lega o amputa Davide, o lo si sminuzza in Davidini litigiosi e isterici come i polli di Renzo, allora l’avverbio di quantità “quasi” sparisce e l’avverbio di tempo “sempre” diventa certezza.
Grande Gilberto, come sempre!!!!!