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Hayek sulla censura e la fine della verità. E la situazione sta peggiorando

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di REDAZIONE

L’insistenza dei regimi occidentali sulla necessità di controllare la comunicazione pubblica ha comportato cambiamenti drammatici nella libertà dei cittadini sui social media e più in generale. I media sono più centralizzati che mai e ciò che possiamo dire e leggere è soggetto a più controllo di quanto avessimo mai immaginato possibile in società nominalmente libere. La situazione sta peggiorando e non migliorando, e i nostri sistemi giudiziari sembrano in gran parte ignari delle implicazioni: questo colpisce il cuore del Primo Emendamento del Bill o Rights

Ad innescare questa accelerazione della censura sono stati ovviamente i lockdown per il Covid, un momento in cui ci si aspettava che tutti i cittadini agissero come un tutt’uno, in una risposta “dell’intera società”. Ci è stato detto: “Siamo tutti coinvolti” e il comportamento scorretto di una persona mette in pericolo tutti. Questo si è esteso dal rispetto delle misure di sicurezza al mascheramento e infine all’obbligo di vaccinarsi. Tutti dovevano conformarsi, ci è stato detto, altrimenti rischiavamo di continuare a restare nella morsa di questo virus mortale.

Il modello è stato poi esteso a tutti gli altri settori, tanto che “misinformazione” e “disinformazione” – termini relativamente nuovi e di uso comune – si riferiscono a tutto ciò che ha un impatto sulla politica e minaccia l’unità della popolazione.

Nel 1944 F.A. Hayek scrisse “La via della schiavitù”, un libro molto citato ancora oggi, ma che raramente viene letto con la profondità che merita. Il capitolo intitolato “La fine della verità” spiega che qualsiasi pianificazione governativa su larga scala comporterà necessariamente la censura e la propaganda, e quindi il controllo della libertà di parola. La preveggenza dei suoi commenti merita di essere riconosciuta e citata per molti anni a venire.

Ecco cosa scriveva Hayek:

  • Il modo più efficace per far sì che tutti servano l’unico sistema di fini verso cui è diretto il piano sociale è far sì che tutti credano in quei fini. Affinché un sistema totalitario funzioni in modo efficiente, non è sufficiente che tutti siano costretti a lavorare per gli stessi fini. È essenziale che il popolo arrivi a considerarli come i propri fini.
  • Sebbene le credenze debbano essere scelte per il popolo e imposte, esse devono diventare le loro credenze, un credo generalmente accettato che fa sì che gli individui agiscano spontaneamente, per quanto possibile, nel modo voluto dal pianificatore. Se il sentimento di oppressione nei Paesi totalitari è in generale molto meno acuto di quanto la maggior parte delle persone nei Paesi liberali immagina, ciò è dovuto al fatto che i governi totalitari riescono in larga misura a far pensare le persone come vogliono loro.
  • Ciò è dovuto, ovviamente, alle varie forme di propaganda. La sua tecnica è ormai così nota che non è necessario parlarne. L’unico punto da sottolineare è che né la propaganda in sé, né le tecniche da essa impiegate, sono peculiari del totalitarismo e che ciò che cambia completamente la sua natura e i suoi effetti in uno Stato totalitario è che tutta la propaganda serve allo stesso obiettivo: tutti gli strumenti di propaganda sono coordinati per influenzare gli individui nella stessa direzione e per produrre la caratteristica “sincronizzazione” di tutte le menti.
  • Di conseguenza, l’effetto della propaganda nei Paesi totalitari è diverso non solo in termini di grandezza, ma anche per tipologia, da quello della propaganda fatta per fini diversi da agenzie indipendenti e in competizione tra loro. Se tutte le fonti di informazione corrente sono effettivamente sotto un unico controllo, non si tratta più solo di persuadere il popolo di questo o quello. L’abile propagandista ha allora il potere di plasmare le menti in qualsiasi direzione scelga, e anche le persone più intelligenti e indipendenti non potranno sfuggire del tutto a questa influenza venendo isolate a lungo da tutte le altre fonti di informazione.

  • Se negli Stati totalitari questo status della propaganda le conferisce un potere unico sulle menti del popolo, gli effetti morali peculiari non derivano dalla tecnica, ma dall’oggetto e dalla portata della propaganda totalitaria. Se si limitasse a indottrinare il popolo con l’intero sistema di valori verso cui è diretto lo sforzo sociale, la propaganda rappresenterebbe solo una manifestazione particolare delle caratteristiche della morale collettivista che abbiamo già considerato. Se il suo scopo fosse solo quello di insegnare al popolo un codice morale definito e completo, il problema sarebbe solo quello di stabilire se questo codice morale sia buono o cattivo.
  • Abbiamo visto che il codice morale di una società totalitaria non è in grado di attrarci, che anche la ricerca dell’uguaglianza per mezzo di un’economia dirigista può portare solo a una disuguaglianza ufficialmente imposta – una determinazione autoritaria dello status di ogni individuo nel nuovo ordine gerarchico – e che la maggior parte degli elementi umanitari della nostra morale, il rispetto per la vita umana, per i deboli e per l’individuo in generale, in essa scompaiono. Per quanto questo possa essere ripugnante per la maggior parte delle persone, e sebbene comporti un cambiamento degli standard morali, non è necessariamente del tutto antimorale.
  • Alcune caratteristiche di un tale sistema potrebbero persino attrarre i moralisti più severi di stampo conservatore e sembrare loro preferibili agli standard più morbidi di una società liberale. Le conseguenze morali della propaganda totalitaria che dobbiamo ora considerare sono, tuttavia, di un tipo ancora più profondo. Sono distruttive di ogni morale perché minano uno dei fondamenti di ogni morale: il senso e il rispetto della verità.
  • Per la natura del suo compito, la propaganda totalitaria non può limitarsi ai valori, alle questioni di opinione e alle convinzioni morali in cui l’individuo si conformerà sempre più o meno alle opinioni della sua comunità, ma deve estendersi a questioni di fatto in cui l’intelligenza umana è coinvolta in modo diverso. Questo perché, in primo luogo, per indurre le persone ad accettare i valori ufficiali, questi devono essere giustificati, o dimostrare di essere connessi con i valori già posseduti dalla gente, il che di solito implica asserzioni sulle connessioni causali tra mezzi e fini; e, in secondo luogo, perché la distinzione tra fini e mezzi, tra l’obiettivo perseguito e le misure adottate per raggiungerlo, in realtà non è mai così netta e definita come qualsiasi discussione generale su questi problemi potrebbe suggerire; e perché, quindi, le persone devono essere portate a concordare non solo con gli obiettivi finali, ma anche con le opinioni sui fatti e sulle possibilità su cui si basano le misure particolari.
  • Abbiamo visto che l’accordo su quel codice etico completo, quel sistema di valori onnicomprensivo che è implicito in un piano economico, non esiste in una società libera, ma dovrebbe essere creato. Ma non dobbiamo presumere che il pianificatore affronti il suo compito consapevole di questa necessità o che, anche se ne fosse consapevole, sarebbe possibile creare in anticipo un codice così completo. Egli scopre i conflitti tra le diverse esigenze solo man mano che procede, e deve prendere le sue decisioni man mano che si presenta la necessità. Il codice di valori che guida le sue decisioni non esiste in astratto prima che le decisioni vengano prese; deve essere creato con le decisioni particolari.
  • Abbiamo anche visto, come questa incapacità di separare il problema generale dei valori e le decisioni particolari, renda impossibile che un organo democratico, pur non potendo decidere i dettagli tecnici di un piano, determini i valori che lo guidano. Se da un lato l’autorità di pianificazione dovrà costantemente decidere su questioni di merito per le quali non esistono regole morali certe, dall’altro dovrà giustificare le proprie decisioni di fronte alla popolazione – o, almeno, dovrà in qualche modo far credere alla popolazione che si tratta di decisioni giuste.
  • Anche se i responsabili di una decisione possono essere stati guidati solo da pregiudizi, qualche principio guida dovrà essere dichiarato pubblicamente, se la comunità non vuole semplicemente sottomettersi passivamente, ma sostenere attivamente la misura. La necessità di razionalizzare le simpatie e le antipatie che, in mancanza di altro, devono guidare il pianificatore in molte delle sue decisioni, e la necessità di esporre le proprie ragioni in una forma che faccia appello al maggior numero di persone possibile, lo costringeranno a costruire teorie, cioè asserzioni sulle connessioni tra i fatti, che diventeranno poi parte integrante della dottrina di governo.

  • Questo processo di creazione di un “mito” per giustificare la sua azione non deve necessariamente essere consapevole. Il leader totalitario può essere guidato semplicemente da un’istintiva antipatia per lo stato di cose che ha trovato e dal desiderio di creare un nuovo ordine gerarchico più conforme alla sua concezione del merito; può semplicemente sapere che non gli piacciono gli ebrei che sembravano avere tanto successo in un ordine che non gli offriva un posto soddisfacente, e che ama e ammira l’uomo alto e biondo, la figura “aristocratica” dei romanzi della sua giovinezza. Perciò abbraccerà prontamente le teorie che sembrano fornire una giustificazione razionale ai pregiudizi che condivide con molti dei suoi compagni.
  • Così una teoria pseudoscientifica diventa parte del credo ufficiale che, in misura maggiore o minore, orienta l’azione di tutti. Oppure l’avversione diffusa per la civiltà industriale e la nostalgia romantica per la vita di campagna, insieme a un’idea (probabilmente errata) sul valore speciale della gente di campagna come soldati, forniscono la base per un altro mito: Blut und Boden (“sangue e terra”), che esprime non solo valori ultimi, ma un’intera serie di credenze su cause ed effetti che, una volta diventati ideali che dirigono l’attività dell’intera comunità, non dovranno più essere messi in discussione.
  • La necessità di tali dottrine ufficiali come strumento per dirigere e unificare gli sforzi del popolo è stata chiaramente prevista dai vari teorici del sistema totalitario. Le “nobili menzogne” di Platone e i “miti” di Sorel servono allo stesso scopo della dottrina razziale dei nazisti o della teoria dello Stato corporativo di Mussolini. Sono tutte necessariamente basate su particolari opinioni sui fatti che vengono poi elaborate in teorie scientifiche per giustificare un’opinione preconcetta.
  • Il modo più efficace per far accettare alle persone la validità dei valori che devono servire è quello di convincerle che sono davvero gli stessi che loro, o almeno i migliori tra loro, hanno sempre sostenuto, ma che prima non erano adeguatamente compresi o riconosciuti. Il popolo viene indotto a trasferire la propria fedeltà dai vecchi ai nuovi dèi con la scusa che i nuovi dèi sono davvero ciò che il loro sano istinto ha sempre detto loro, ma che prima vedevano solo vagamente. La tecnica più efficace a questo scopo è usare le vecchie parole ma cambiarne il significato. Pochi tratti dei regimi totalitari sono allo stesso tempo così confusi per l’osservatore superficiale e così caratteristici dell’intero clima intellettuale come la completa perversione del linguaggio, il cambiamento di significato delle parole con cui vengono espressi gli ideali dei nuovi regimi.
  • La parola “libertà” è quella che soffre di più in questo senso. È una parola usata liberamente negli Stati totalitari come altrove. Anzi, si potrebbe quasi dire – e questo dovrebbe servirci da monito per stare in guardia contro tutti i tentatori che ci promettono nuove libertà in cambio delle vecchie – che ovunque sia stata distrutta la libertà come la intendiamo noi, ciò è avvenuto quasi sempre in nome di qualche nuova libertà promessa al popolo. Anche tra noi ci sono “pianificatori della libertà” che ci promettono una “libertà collettiva per il gruppo”, la cui natura può essere dedotta dal fatto che il suo sostenitore trova necessario assicurarci che “naturalmente l’avvento della libertà pianificata non significa che tutte le forme precedenti di libertà debbano essere abolite”.
  • Il dottor Karl Mannheim, dalla cui opera sono tratte queste frasi, ci avverte almeno che “una concezione della libertà modellata sull’epoca precedente è un ostacolo a qualsiasi reale comprensione del problema”. Ma l’uso che egli fa della parola “libertà” è fuorviante, come lo è sempre in bocca ai politici totalitari. Come la loro libertà, la “libertà collettiva” che ci offreMannheim non è la libertà dei singoli membri della società, è la libertà illimitata del pianificatore di fare della società ciò che vuole.
  • È la confusione tra libertà e potere portata all’estremo. In questo caso particolare, la perversione del significato della parola libertà è stata ovviamente ben preparata da una lunga serie di filosofi tedeschi e, non da ultimo, da molti teorici del socialismo. Ma “libertà” non è affatto la sola parola il cui significato è stato modificato nel suo opposto per servirsene come strumento di propaganda totalitaria. Abbiamo già visto come lo stesso sia accaduto a “giustizia”, “legge”, “diritto” e “uguaglianza”. L’elenco potrebbe essere esteso fino a comprendere quasi tutti i termini morali e politici di uso comune. Se non si è sperimentato questo processo, è difficile apprezzare la portata di questo cambiamento del significato delle parole, la confusione che provoca e gli ostacoli a qualsiasi discussione razionale che crea. Bisogna vedere per capire come basti che uno di due fratelli abbracci la nuova fede perché dopo poco tempo sembri parlare una lingua diversa che rende impossibile qualsiasi reale comunicazione tra loro.
  • E la confusione si aggrava costantemente, perché questo cambiamento di significato delle parole che descrivono gli ideali politici non è un evento singolo ma un processo continuo, una tecnica impiegata consciamente o inconsciamente per dirigere il popolo.

  • A poco a poco, con il proseguire di questo processo, l’intero linguaggio viene depredato e le parole diventano gusci vuoti, prive di qualsiasi significato definito, capaci di indicare tanto una cosa quanto il suo contrario e utilizzate solo per le associazioni emotive che ancora vi aderiscono. Non è difficile privare la maggioranza della popolazione della propria capacità di pensiero indipendente. Ma anche la minoranza che manterrà l’inclinazione al pensiero critico dovrà essere messa a tacere.
  • Abbiamo già visto perché la coercizione non può essere limitata all’accettazione del codice etico che sta alla base del piano secondo cui viene diretta tutta l’attività sociale. Poiché molte parti di questo codice non saranno mai dichiarate esplicitamente, poiché molte parti della scala di valori guida esisteranno solo implicitamente nel piano, il piano stesso in ogni dettaglio, in realtà ogni atto del governo, deve diventare sacrosanto ed esente da critiche. Affinché il popolo sostenga senza esitazione lo sforzo comune, deve essere convinto che non solo il fine perseguito, ma anche i mezzi scelti siano quelli giusti.
  • Il credo ufficiale, a cui si deve aderire, comprenderà quindi tutte le opinioni sui fatti su cui si basa il piano. Le critiche pubbliche o anche solo le espressioni di dubbio dovranno essere soppresse perché tendono a indebolire il sostegno pubblico. Come riferiscono i coniugi Webb sulla posizione di ogni impresa russa: “Mentre il lavoro è in corso, qualsiasi espressione pubblica di dubbio, o anche solo di timore che il piano non abbia successo, è un atto di slealtà e persino di tradimento per i suoi possibili effetti sulla volontà e sugli sforzi del resto del personale”.
  • E se il dubbio o il timore espresso non riguarda il successo di una particolare impresa, ma dell’intero piano sociale, deve essere trattato ancora di più come un sabotaggio. Fatti e teorie devono quindi diventare oggetto di una dottrina ufficiale non meno delle opinioni sui valori. E tutto l’apparato di diffusione della conoscenza – scuole e stampa, radio e cinema – sarà utilizzato esclusivamente per diffondere quelle opinioni che, vere o false che siano, rafforzeranno la convinzione della giustezza delle decisioni prese dall’autorità; e tutte le informazioni che potrebbero causare dubbi o esitazioni saranno soppresse.
  • Il probabile effetto sulla fedeltà del popolo al sistema diventa l’unico criterio per decidere se una particolare informazione debba essere pubblicata o soppressa. La situazione in uno Stato totalitario è la stessa che si verifica momentaneamente in alcuni settori in tempo di guerra, ma permanente ed estesa a tutti i settori. Tutto ciò che potrebbe far dubitare della saggezza del governo o creare malcontento sarà tenuto nascosto al popolo. La base di paragoni sfavorevoli con le condizioni di altri paesi, la conoscenza di possibili alternative al corso che viene seguito, le informazioni che potrebbero suggerire un fallimento da parte del governo nel mantenere le sue promesse o nel trarre vantaggio dalle opportunità di migliorare le condizioni attuali, tutto questo sarà soppresso.
  • Di conseguenza, non vi sarà campo in cui non si praticherà il controllo sistematico dell’informazione e non si imporrà l’uniformità delle opinioni. Questo vale anche per i campi apparentemente più lontani da qualsiasi interesse politico e in particolare per tutte le scienze, anche le più astratte. Che nelle discipline che hanno a che fare direttamente con gli affari umani e che quindi influenzano più immediatamente le opinioni politiche, come la storia, il diritto o l’economia, la ricerca disinteressata della verità non possa essere consentita in un sistema totalitario, e che la rivendicazione delle opinioni ufficiali diventi l’unico obiettivo, è facilmente intuibile ed è stato ampiamente confermato dall’esperienza.
  • Queste discipline, infatti, sono diventate in tutti i Paesi totalitari le fabbriche più fertili dei miti ufficiali che i governanti usano per guidare le menti e le volontà dei loro sudditi. Non sorprende che in questi ambiti si abbandoni persino la pretesa di ricercare la verità e che siano le autorità a decidere quali dottrine debbano essere insegnate e pubblicate. Il controllo totalitario dell’opinione si estenderà, tuttavia, anche ad argomenti che a prima vista sembrano non avere alcun significato politico.
  • A volte è difficile spiegare perché determinate dottrine dovrebbero essere ufficialmente proscritte o perché altre dovrebbero essere incoraggiate, ed è curioso che queste preferenze e antipatie siano apparentemente simili nei diversi sistemi totalitari. In particolare, tutti sembrano avere in comune un’intensa avversione per le forme di pensiero più astratte, un’avversione caratteristica anche di molti collettivisti tra i nostri scienziati.
  • Che la teoria della relatività venga rappresentata come un “attacco semitico alle fondamenta della fisica cristiana e nordica” o che venga osteggiata perché “in conflitto con il materialismo dialettico e il dogma marxista”, non fa molta differenza. Né fa molta differenza se alcuni teoremi della statistica matematica vengono attaccati perché “fanno parte della lotta di classe sulla frontiera ideologica e sono il prodotto del ruolo storico della matematica come serva della borghesia”, o se l’intera materia viene condannata perché “non fornisce alcuna garanzia di servire l’interesse del popolo”.
  • Sembra che la matematica pura non sia meno vittima e che persino il possesso di particolari opinioni sulla natura della continuità possa essere attribuito a “pregiudizi borghesi”. Secondo i Webb, il “Journal for Marxist-Leninist Natural Sciences” ha i seguenti slogan: “Noi siamo per il Partito nella Matematica. Siamo per la purezza della teoria marxista-leninista in chirurgia”. La situazione sembra essere molto simile in Germania. La rivista dell’Associazione Nazional-Socialista dei Matematici è piena di “Partito nellaMatematica”, e uno dei più noti fisici tedeschi, il premio Nobel Lenard, ha riassunto l’opera della sua vita con il titolo “Fisica tedesca in quattro volumi”!
  • Tutto ciò è del tutto in linea con lo spirito del totalitarismo, che condanna qualsiasi attività umana fatta per sé stessa e senza secondi fini. La scienza per la scienza, l’arte per l’arte, sono ugualmente ripugnanti per i nazisti, per i nostri intellettuali socialisti e per i comunisti. Ogni attività deve trovare la sua giustificazione in uno scopo sociale consapevole. Non deve esistere un’attività spontanea e non guidata, perché potrebbe produrre risultati non prevedibili e non previsti dal piano. Potrebbe produrre qualcosa di nuovo, non previsto dalla filosofia del pianificatore.
  • Il principio si estende anche ai giochi e ai divertimenti. Lascio al lettore indovinare se è stato in Germania o in Russia che i giocatori di scacchi sono stati ufficialmente esortati a “porre fine una volta per tutte alla neutralità degli scacchi. Dobbiamo condannare una volta per tutte la formula ‘scacchi per amore degli scacchi’ come la formula “arte per amore dell’arte”.
  • Per quanto incredibili possano apparire alcune di queste aberrazioni, dobbiamo comunque stare attenti a non liquidarle come semplici sottoprodotti accidentali che non hanno nulla a che fare con il carattere essenziale di un sistema pianificato o totalitario. Non è così. Sono il risultato diretto di quello stesso desiderio di vedere tutto diretto da una “concezione unitaria del tutto”, sono frutto della necessità di sostenere a tutti i costi le idee al servizio delle quali si chiede alle persone di fare continui sacrifici e dell’idea generale che le conoscenze e le credenze del popolo siano uno strumento da utilizzare per quell’unico scopo.
  • Una volta che la scienza debba servire, non più la verità, ma gli interessi di una classe, di una comunità o di uno Stato, l’unico compito dell’argomentazione e della discussione è quello di difendere e diffondere ulteriormente le convinzioni che dirigono l’intera vita della comunità. Come ha spiegato il ministro nazista della Giustizia, la domanda che ogni nuova teoria scientifica deve porsi è: “Servo il nazionalsocialismo per il massimo beneficio di tutti?”.
  • La parola “verità” stessa cessa di avere il suo vecchio significato. Non descrive più qualcosa da trovare, con la coscienza individuale come unico arbitro per stabilire se in un caso particolare l’evidenza (o la posizione di chi la proclama) giustifichi una credenza; diventa qualcosa che deve essere stabilito dall’autorità, qualcosa che deve essere creduto nell’interesse dell’unità dello sforzo organizzato e che può essere modificato quando le esigenze di questo sforzo organizzato lo richiedono.
  • Il clima intellettuale generale che ne deriva, lo spirito di completo cinismo nei confronti della verità che genera, la perdita del senso della verità, la scomparsa dello spirito di indagine indipendente e della fiducia nel potere della convinzione razionale, il modo in cui le differenze di opinione in ogni branca del sapere diventano questioni politiche da decidere con l’autorità, sono tutte cose che si devono sperimentare personalmente – sperimentare – nessuna breve descrizione può trasmettere la loro portata.
  • Forse il dato più allarmante è che il disprezzo per la libertà intellettuale non è un fenomeno che si manifesti solo una volta che si sia instaurato il sistema totalitario, ma si riscontra ovunque tra gli intellettuali che abbracciano una fede collettivista e sono acclamati come guide intellettuali, anche nei Paesi ancora in un regime liberale.
  • Non solo si perdona anche la peggiore oppressione, se commessa in nome del socialismo, e si sostiene apertamente la creazione di un sistema totalitario da parte di persone che pretendono di parlare a nome degli scienziati dei Paesi liberali; anche l’intolleranza viene apertamente esaltata. Non abbiamo forse visto di recente uno scrittore scientifico britannico difendere persino l’Inquisizione, perché a suo parere “è benefica per la scienza quando protegge una classe in ascesa”.
  • Questa visione è, ovviamente, praticamente indistinguibile da quella che ha portato i nazisti alla persecuzione degli uomini di scienza, al rogo dei libri scientifici e allo sradicamento sistematico dell’intellighenzia del popolo sottomesso. Il desiderio di imporre al popolo un credo che si ritiene salutare per lui non è, ovviamente, una cosa nuova o peculiare del nostro tempo.
  • Nuovo, invece, è l’argomento con cui molti dei nostri intellettuali cercano di giustificare tali tentativi. Non esiste una vera libertà di pensiero nella nostra società, si dice, perché le opinioni e i gusti delle masse sono plasmati dalla propaganda, dalla pubblicità, dall’esempio delle classi superiori e da altri fattori ambientali che inevitabilmente costringono il pensiero della gente in solchi ben rodati. Da ciò si conclude che se gli ideali e i gusti della grande maggioranza sono sempre modellati da circostanze che possiamo controllare, dovremmo usare questo potere deliberatamente per orientare i pensieri della gente in quella che riteniamo essere una direzione desiderabile.
  • Probabilmente è abbastanza vero che la grande maggioranza è raramente in grado di pensare in modo indipendente, che sulla maggior parte delle questioni accetta le opinioni che trova già pronte, e che sarà ugualmente soddisfatta di un insieme di credenze o di un altro, che vi arrivi naturalmente o per coercizione. In ogni società la libertà di pensiero avrà probabilmente un significato diretto solo per una piccola minoranza. Ma questo non significa che qualcuno possa avere la competenza per, o debba avere il potere di selezionare coloro ai quali riservare questa libertà.

  • Di certo non giustifica la presunzione di un gruppo di persone di arrogarsi il diritto di determinare ciò che la gente deve pensare o credere. È una totale confusione di pensiero suggerire che, poiché in qualsiasi tipo di sistema la maggioranza delle persone segue la guida di qualcuno, non fa differenza che tutti vengano costretti a seguire la stessa guida.
  • Sminuire il valore della libertà intellettuale perché non significherà mai per tutti la stessa possibilità di pensiero indipendente significa perdere completamente le ragioni che conferiscono alla libertà intellettuale il suo valore. Ciò che è essenziale per farle svolgere la sua funzione di motore del progresso intellettuale non è che tutti possano pensare o scrivere qualsiasi cosa, ma che qualsiasi causa o idea possa essere sostenuta da qualcuno. Finché non si reprime il dissenso, ci saranno sempre alcuni che metteranno in discussione le idee dei loro contemporanei e che sottoporranno nuove idee alla prova dell’argomentazione e della propaganda.
  • Questa interazione tra individui, che possiedono conoscenze e punti di vista diversi, è ciò che costituisce la vita del pensiero. La crescita della ragione è un processo sociale basato sull’esistenza di queste differenze. La sua essenza è che i suoi risultati non possono essere previsti, che non possiamo sapere quali punti di vista favoriranno questa crescita e quali no… in breve, che questa crescita non può essere governata da alcun punto di vista che oggi possediamo senzaallo stesso tempolimitarla.
  • “Pianificare” o “organizzare” la crescita della mente, o, se vogliamo, il progresso in generale, è una contraddizione in termini. L’idea che la mente umana debba controllare “consapevolmente” il proprio sviluppo confonde la ragione individuale, che sola può “controllare consapevolmente” qualcosa, con il processo interpersonale a cui la sua crescita è dovuta. Tentando di controllarla, non facciamo altro che porre dei limiti al suo sviluppo, producendo prima o poi una stagnazione del pensiero e un declino della ragione.
  • La tragedia del pensiero collettivista è che, pur partendo con l’intenzione di “rendere la ragione suprema”, finisce per distruggerla perché concepisce male il processo da cui dipende la crescita della ragione. Si può dire che il paradosso di tutte le dottrine collettiviste e della loro richiesta di un controllo “consapevole” o di una pianificazione “cosciente” è che esse conducono necessariamente alla richiesta che la mente di un qualche individuo debba governare in modo supremo, mentre solo l’approccio individualista ai fenomeni sociali ci fa riconoscere le forze superindividuali che guidano la crescita della ragione.
  • L’individualismo è quindi un atteggiamento di umiltà di fronte a questo processo sociale e di tolleranza verso le altre opinioni ed è l’esatto opposto di quell’arroganza intellettuale che è alla base della richiesta di instaurare una direzione globale del processo sociale.  

QUI IL LINK ALL’ORIGINALE  – TRADUZIONE DI PIETRO AGRIESTI 

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