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Hong kong, la cina cambia il sistema elettorale per eleggere solo comunisti

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di C. ALESSANDRO MAUCERI

Nell’indifferenza generale il governo di Pechino continua a imporre i propri diktat su Hong Kong.
Del “problema” Hong Kong si parla sempre meno. La rivolta popolare è stata soffocata anche sotto il profilo mediatico da altre notizie, anche meno importanti. Persino il grido d’allarme dell’ex vescovo di Hong Kong Joseph Zen è rimasto inascoltato, ed il Papa non lo ha ricevuto al Vaticano.

Dopo aver stroncato con la forza la rivolta nelle piazze, il governo centrale e centralista cinese ha varato una legge sulla sicurezza nazionale che punisce pesantemente gli atti di sovversione, secessione, terrorismo e collusione con le forze straniere, e che rende più facile reprimere le manifestazioni non gradite. Non contento, nei gironi scorsi il governo di Pechino si è assicurato che non ci siano sorprese anche alle prossime elezioni.

Il Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo di Pechino (Npcsc), l’organismo cinese nato alla fine del controllo britannico, iniziato nel 1997, nella cornice di “un Paese, due sistemi”, e che ha il potere di interpretare e in parte modificare la Costituzione di Hong Kong, ha deciso di cambiare le regole del gioco: con 167 voti a favore su 167, il Npcsc ha approvato la revisione della legge elettorale dell’isola che prevede di portare il Consiglio legislativo di Hong Kong da 70 a 90 membri. Di questi però 40 saranno selezionati dalla Commissione elettorale composta a maggioranza da fedelissimi del Partito comunista cinese e 30 andranno ai rappresentanti delle professioni (industria, commercio, contabilità e educazione, da sempre vicini al governo centrale di Pechino). Solo 20 saranno eletti democraticamente dalla popolazione.

Aumentato anche il numero dei membri del comitato: da 1.200 a 1.500, ma anche questo rimane sotto il controllo del governo di Pechino, ed i candidati dovranno infatti essere sottoposti al vaglio di un organo separato che garantisca che la città è governata “da patrioti”. La governatrice di Hong Kong Carrie Lam si è affrettata a dichiarare che la riforma non ridurrà la libertà di voto dei cittadini. Nel farlo però ha annunciato anche un ulteriore rinvio a dicembre delle elezioni generali: il voto era già stato posticipato di un anno lo scorso settembre, ufficialmente per la pandemia di Covid-19. Uno stratagemma, secondo molti, per dare il tempo al governo centrale di presentarsi in modo adeguato alle elezioni.

Quello appena inferto è l’ennesimo bavaglio per mettere a tacere il grido di protesta che per molti mesi ha richiamato l’attenzione sul problema “Hong Kong”. Un colpo durissimo alla democrazia che in Cina non sembra esistere più. In tutti i settori e a tutti i livelli. Finite in un cassetto, e da tempo, le politiche comuniste di Mao (anche le celebrazioni per la ricorrenza sono state cancellate dal calendario), la RPC è oggi controllata da un governo che di “comunista“ ha solo il nome. Per il resto somiglia sempre di più a uno dei tanti governi centralisti e dispotici oggi pericolosamente di nuovo di moda.

“È un giorno triste per Hong Kong. Il sistema elettorale è stato completamente smantellato”, ha dichiarato Emily Lau, ex parlamentare e membro del Partito Democratico. “Si sbarazzeranno delle voci dell’opposizione perché, credo, nessun individuo che si rispetti vorrà prendere parte a questo nuovo sistema, che è così opprimente e restrittivo”.

A confermare che questa è la “nuova” Cina anche i dati dell’Economist Democracy Index 2020 appena pubblicato. Basato su una media ponderata delle risposte a 60 domande, ognuna delle quali ha due o tre possibilità, e successivamente “valutate da esperti”, il nuovo rapporto vede la Repubblica “popolare” cinese tra i paesi più “autoritari” al mondo.

TRATTO DA QUI

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