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Hrair sarkissian, le foto di un figlio delle nuove diaspore

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HRAIR 003
HRAIR 003

di PAOLO L. BERNARDINI

Pareva il Novecento il secolo delle fughe, alla Roth, “senza fine”. Prede indifese della rapacità e della follia degli Stati, milioni, centinaia di milioni di esseri umani deportati, trasportati al fronte, costretti all’emigrazione, forzati all’esilio, finalmente consegnati inerti nelle braccia del boia, o del nulla. Gli etnocidi e genocidi iniziati nel tardo Settecento in Vandea, e poi estesi nel corso dell’Ottocento dai giacobini novelli all’Africa e all’Asia, parevano suggellati e sigillati, per dir così, nel Novecento di due guerre mondiali e infinite altre, calde o fredde, o tiepide, note o ignote.

Il terzo millennio tuttavia sembra proseguire, in modo forse maggiormente discreto, la nefasta tradizione. Nell’Africa sahariana e subsahariana si consumano le ultime (forse) tragedie dei popoli senza stato, e nel Medio Oriente si celebra la tragedia elisabettiana della Siria, dai contorni non del tutto chiari, dagli esiti affatto incerti. Insomma l’ombra lunga della Vandea si estende anche agli albori, chiaroscurali, di un secolo che non promette niente di buono. Per questo, ogni testimonianza di spaesamento e di “dispossession”, giunge particolarmente illuminante, soprattutto se vi è uno spirito libero e inquieto ad offrirla.

Nelle belle e ampie sale esposizione della Fondazione Cassa di Risparmio di Spezia fino al 21 febbraio è visitabile una mostra fotografica davvero singolare, “Hrair Sarkissian. Back to the Future”, in cui mi sono imbattuto mentre girovagavo per i lembi orientali estremi della mia Liguria, sulle esili tracce di memorie di giovinezza, marine e militari, e di vini della Lunigiana. Hrair Sarkissian è un giovane (classe 1973) fotografo figlio di una duplice diaspora. La sua famiglia, di origini armene, dovette lasciare la Turchia nel 1915, all’epoca del genocidio, lungamente e tuttora negato, almeno in Turchia; nato a Damasco, nel 2011, con lo scoppio della guerra civile, dovette lasciare la Siria, dopo essersi formato in un lungo apprendistato nella ditta di famiglia, ora anch’essa chiusa, ovvero in un negozio di fotografia, creato dal padre, che fu il primo ad introdurre SARKISSIAN2il colore a Damasco. E nelle mostra vi è una bella seria di ritratti del padre da giovane, e del figlio, i primi in bianco e nero, i secondi a colori, a documentare, nei volti, se non altro, i differenti destini, e la perdita di fiducia nel mondo che pare affiorare nei tratti tormentati del giovane Hrair, che ora vive a Londra, recandosi ogni tanto in Olanda e Giordania per il suo lavoro.

Hrair Sarkissian è un figlio delle nuove diaspore. Come per i suoi nonni, la Turchia gioca un ruolo ancora una volta preponderante nella questione siriana. E ora, dopo esserne servita per il genocidio armeno, tormenta ancora una volta la minoranza curda, anziché adoperarsi per la nascita, finalmente, di uno Stato curdo da lungo tempo, da troppo, desiderato e necessario. Ma Hrair si occupa, almeno qui, d’altro. E le serie fotografiche qui esposte mostrano al contempo una sensibilità creativa, legata alla dimensione dell’interiorità, e un’attenzione per il paesaggio medio-orientale. Di maggior interesse, per noi, la seconda dimensione. Splendidi i paesaggi lunari della serie “Stand Still”: sei stampe su alluminio di quel che rimane di un progettato quartiere popolare nei dintorni di Damasco, concepito con infinita brutalità e scarsissimo rispetto per il paesaggio originario, un degrado urbanistico che prelude allo scoppio della guerra. Per uno storico, questi scheletri di falansteri di cemento potrebbero ricordare le lapidi monumentali mai erette per le migliaia di soldati armeni che morirono combattendo per i russi nella seconda guerra mondiale, per rimanere nell’ambito della storia personale del fotografo. Oppure, il cimitero post-moderno per i morti siriani a venire. Hrair ne fa un colossale monumento alla violenza di ogni dittatura, verso il paese, il paesaggio, e finalmente l’individuo. E i sovietici violentarono il paesaggio di Yerevan fino al 1991, tanto quanto i siriani quello di Damasco.

Molto suggestive anche le altre serie fotografiche. Ed infatti il pubblico è insolitamente folto. Splendida, per tutto quel che evoca, e di cui darò finalmente conto, la serie “Zebiba”, quarantacinque ritratti di fedeli musulmani che accolgono nella prima sala il visitatore, che se li trova proprio davanti, subito, a fissarlo negli occhi. Ora, “zabiba” è vocabolo arabo che vuol dire “bernoccolo”. Il “bernoccolo della preghiera” che si sviluppa per il frequente contatto della fronte con il tappeto ove ci si inginocchia, e ci si piega nel rituale ben noto, fino a toccare appunto il suolo. Ayman Muḥammad Rabīʿ al-Ẓawāhirī, il successore di Bin Laden, ne ha uno ben visibile ed esibito, segno di devozione non meno delle cicatrici sulla schiena delle cristiane discipline; ma questo è segno esibito sulla fronte, segno di “sottomissione”, proprio, al profeta e alla profezia. Religione o fanatismo, fede o follia? Difficile dire, certo i segni sul volto, nati dalla violenza, o da violenti rituali, lasciano sempre un poco perplessi, si pensi alle cicatrici rosse di Ernst Kaltenbrunner – e ne parlò, se la memoria non mi inganna, il giovane Enzo Biagi, inviato a Norimberga – mentre il gerarca nazista si apprestava a salire sul patibolo. Erano il segno dei duelli studenteschi giovanili, di virilità volta in violenza. Poco rassicuranti, avessero adornato volti anche meno crudeli. Cosa ci dicono questi quarantacinque volti che alla perfezione certo conosceranno i novantanove nomi di Allah, e che tuttavia ci turbano non poco, nella fissità del loro sguardo, e con un bernoccolo che li rende prodigiosi unicorni, ma molto più reali dell’animale fiabesco cui qui ed ora li ho accostati?

Hrair fotografa case distrutte, palazzi mai costruiti, volti segnati, ingressi oscuri di chiese di chissà quale religione, se il suo scopo è inquietare, e suscitare domande, perfettamente ci riesce. E questo basti. Il Medio Oriente che traspare è forse ancora più inquieto dei ritratti impressionistici che sono offerti qui. Il bel catalogo a cura di Filippo Maggia (Skira), invita a più meditate riflessioni.

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