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I conti sballati di renzi: la verità non è un optional

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di MATTEO CORSINI

Se c’è un terreno scivoloso per chi ha l’eloquio sciolto ma un rapporto conflittuale con i numeri è proprio quello dell’utilizzo di dati numerici per avvalorare le proprie posizioni. In questo Matteo Renzi non teme rivali, a mio parere. In questi giorni di campagna congressuale, nonostante abbia lasciato una patata più che bollente in mano al duo Gentiloni-Padoan in prospettiva della predisposizione del DEF e, soprattutto, della legge di bilancio per il 2018, l’incontinenza verbale di Renzi sembra essere in fase acuta.

Non solo non si accontenta di impedire, sostanzialmente, i tagli di spesa pubblica e la cessione di partecipazioni in società ancora in mano al Tesoro, a fronte di clausole di salvaguardia rinviate al 2018 per circa 19 miliardi tra IVA e accise. Si spinge anche a parlare, del tutto a sproposito, di virtuosità nella gestione dei conti pubblici durante il suo periodo al governo: “E’ evidente come i momenti in cui i conti sono peggiorati sono quelli dei governi Berlusconi, Monti e Letta. I numeri sfatano una bugia virale di questi mesi. In queste ultime settimane si parla delle scelte dei mille giorni in modo improvvisato, specie sul lavoro e sul bilancio pubblico. Non vi tedio. Dico solo a chi ha voglia di discutere nel merito che la verità non è un optional. Quando si parla di numeri andrebbero rispettati i fatti”.

Per contro, i suoi predecessori avrebbero fatto più deficit di lui: Il Governo Monti e il Governo Letta avevano un deficit più alto del nostro, lo avevano al 3%. Noi lo abbiamo ridotto, non aumentato. Siamo stati più rigorosi, non meno rigorosi. Abbiamo usato la flessibilità che ci siamo conquistati per tenere il deficit al 2,3% (che diventerà 2,1% per effetto della manovrina concordata dall’attuale Governo a Bruxelles) anziché arrivare da subito al pareggio di bilancio voluto dalla politica di austerity del passato”.

C’è un dato che Renzi non quantifica: gli interessi sul debito pubblico, che ai tempi dei suoi predecessori erano circa 20 miliardi all’anno più alti. E senza il Qe della BCE, iniziato in pieno periodo renziano, gli interessi non sarebbero calati, certamente non così tanto. In sostanza, se negli anni di Renzi gli interessi fossero rimasti costanti al livello del 2013, il deficit non solo non sarebbe sceso sotto al 3%, ma sarebbe stato costantemente oltre il 3.5% del Pil. E a promettere riduzioni maggiori di quelle poi realizzate era lo stesso Renzi nei DEF, salvo rimangiarsi le promesse al momento di predisporre le leggi di bilancio, chiedendo “flessibilità”.

Flessibilità che, a suo dire, “non significa maggiore spazio di deficit rispetto al passato come fa credere qualcuno. Ma significa maggiore spazio di deficit rispetto alle assurde previsioni del fiscal compact”. Ahimè, flessibilità significa proprio più deficit anche rispetto al passato, al netto della riduzione della spesa per interessi, fattore peraltro esogeno.

Renzi afferma che “la verità non è un optional”. In effetti non lo è, ma è assurdo che sia lui a sostenerlo.


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