di NICHELCROMO MOLIBDENO
La volontà originaria che stava alla base dell’appello ai diritti naturali fatta dal liberalismo, era quella di proteggere l’individuo dagli arbìtri del potere. Secondo Locke, padre del liberalismo giusnaturalista, ognuno possiede, in quanto individuo, dei diritti inalienabili di libertà (alla vita, all’incolumità personale, alla proprietà e al perseguimento della propria felicità) indipendentemente da quale sia il gruppo sociale o la classe a cui appartiene. Questi diritti fanno in modo che ciascun individuo venga trattato dagli altri come un essere libero, sovrano sulla propria vita e sui propri beni, e che, a sua volta, egli abbia doveri di non-interferenza verso gli altri. Per la loro natura di libertà negative che derivano dalla legge naturale, essi si rispettano non violandoli, e il dovere di non violarli ricade, in modo chiaro e inequivocabile, su ognuno di noi.
Oggi, invece, le nuove concezioni del diritto positivo hanno esteso lo status di diritto naturale a tutta una serie diritti (in realtà di bisogni, ndr), economici, sociali e culturali (diritto al lavoro, al tempo libero, alla salute, alla sicurezza sociale, all’istruzione, e potrei andare avanti all’infinito) i quali, piuttosto che argini di libertà contro le intrusioni dello stato, rappresentano pretese o rivendicazioni di privilegi nei confronti di quest’ultimo. Essi assegnano benefici ad un gruppo mentre li negano ad un altro: così una persona può pretendere dei diritti in quanto membro di una minoranza etnica, di una classe sociale, di un genere, diritti che però non possono essere rivendicati da ogni cittadino, come accade invece per i diritti naturali, che sono universali perché basati sulla legge morale, la responsabilità e l’accordo.
In questo modo alcune persone possono essere privilegiate in base alla classe, alla razza, al rango, al genere, al tipo di occupazione, ecc., e tutto questo proprio in nome dei valori liberali. Questi diritti, che sostanziano dalle dichiarazioni internazionali dei diritti umani, oltre a rappresentare una minaccia per l’ordine basato sul consenso (una rivendicazione contro un altro, espressa in forma di diritto, equivale a imporre a costui un dovere, di fatto violandone la sovranità), riflettono un profondo spostamento di asse nella filosofia liberale: dalle libertà alle rivendicazioni e dalla parità di trattamento alla parità di esiti.
Tutto ciò si traduce, di conseguenza, in una massiccia espansione del potere statale, nella delega allo stato di ogni responsabilità in precedenza in capo ai singoli individui e nell’assorbimento di gran parte della vita sociale nella macchina pubblica. In altre parole, i diritti intesi come rivendicazioni spingono inevitabilmente in una direzione che non è solo economicamente disastrosa, ma anche moralmente inaccettabile. Ed è una direzione diametralmente opposta a quella per la quale venne inizialmente introdotta l’idea di diritto umano: una direzione che comporta l’aumento e non la limitazione del potere dello stato sugli individui.
Ecco il cortocircuito liberale ed ecco perché oggi non è più sufficiente definirsi liberali senza, al contempo, essere anche libertari (nei vari gradi in cui si sviluppa l’antistatalismo all’interno di questo pensiero politico) ma soprattutto culturalmente e socialmente conservatori.
Conservatori? Di cosa? Della cultura libera? Se non è libera non è cultura. Conservare gli attuali sistemi politici non mi sembra un buon obiettivo. Appoggiare i partiti che si definiscono conservatori è un’altra scelta che non condivido, visto il loro mercantilismo fattuale e la loro scarsa volontà di perseguire un modello politico autenticamente libero. Conservare la libertà potrebbe essere un impegno di alto valore etico ma attualmente occorrerebbe prima riconquistarla; o forse conquistarla per la prima volta. “Socialmente” conservatori. Un avverbio che può rilevarsi oscuro e perfino preoccupante.