“L’intermediazione del settore pubblico si è leggermente ridotta, ma si è scelto di non ridurla tanto quanto i risultati della spending review avrebbero consentito (circa 25 miliardi a tutto il 2016), perché si sono aumentate alcune voci di spesa ritenute meritevoli, quali scuola, ammortizzatori sociali e sicurezza. Guardando i numeri, troviamo che l’indebitamento netto della Pa, attestatosi attorno al 3% sino al 2014, è sceso al 2,6% nel 2015 e dovrebbe scendere ulteriormente nel 2016. Si può dire, come dice la Commissione europea, che la riduzione è stata insufficiente, ma non si può certo dire che si sia aumentato l’indebitamento per fare spesa in deficit”. Giampaolo Galli sostiene che si debba dare una lettura “pragmatica” della politica economica dell’ultimo governo, a metà via tra quella di chi ritiene che il governo Renzi abbia proseguito sulla linea dell’austerità praticata dai governi precedenti e chi, al contrario, pensa che abbia fatto troppa spesa in deficit.
Come dovrebbe essere noto, io propendo per la seconda lettura, il tutto basandomi su una lettura dei numeri. Si dirà che Galli argomenta proprio basandosi sui numeri, il che è vero. Il problema è che ne omette uno a mio parere fondamentale: l’andamento della spesa per interessi sul debito pubblico. Galli riconosce che alle riduzioni di spesa spacciate da Renzi e Padoan come tagli draconiani sono in realtà stati accompagnati aumenti di altre spese. Ciò che non dice fino in fondo è che il saldo netto è stato un incremento della spesa, come documentato da Roberto Perotti in “Status Quo”.
Nel periodo 2014-2016, la somma delle voci di spesa in diminuzione è pari a 24.728 milioni, mentre gli aumenti sono pari a 20.116 milioni. Tuttavia ci sono stati 5 miliardi di riduzioni ai trasferimenti dallo Stato agli enti locali, i quali hanno sovente aumentato le tasse di loro competenza. Se si deducono integralmente i tagli ai trasferimenti si ottiene un aumento di spesa di 662 milioni. Anche ammettendo che gli enti locali abbiano in parte ridotto la spesa, è evidente che i 25 miliardi di tagli di cui tanto parlavano Renzi e Padoan sono un dato fuorviante.
Quanto alla riduzione del deficit, è vero che si è passati dal 3,1% del Pil nel 2014 al 2,6% nel 2015 e che probabilmente nel 2016 ci sarà un’altra lieve discesa. Tuttavia la Commissione europea lamenta il fatto che il governo italiano ogni anno promette un percorso di riduzione in occasione della presentazione del DEF in primavera, salvo poi rimandare al futuro gran parte di quella riduzione quando predispone la legge di bilancio in autunno. Per di più, se la spesa per interessi fosse rimasta costante dal 2013 in poi, il deficit dell’Italia a fine 2015 sarebbe stato pari al 3,5% del Pil. Ora, la riduzione della spesa per interessi, che Renzi e Padoan ascrivevano alla rinnovata “credibilità” del governo italiano, ha invece a che fare molto di più con il Qe della BCE.
Quindi i numeri dicono che l’Italia ha perso altre occasioni buone per sistemare i conti pubblici, facendo più spesa in deficit di quanto sarebbe stato coerente con la effettiva volontà di risanamento.