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Il grande enigma socialista del xx secolo: i pellegrini politici

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di GUGLIELMO PIOMBINI

Dalla fine degli anni venti all’inizio degli Anni Ottanta, le esperienze politiche dei paesi del socialismo realizzato hanno esercitato un’irresistibile attrazione sugli intellettuali progressisti d’Occidente. Una folla di scrittori, filosofi, sociologi, giornalisti ha creduto di trovare, in una terra lontana, un modello di società superiore a quello in cui viveva. La Russia di Stalin, la Cina di Mao, la Cuba di Castro e Guevara, il Vietnam di Ho Chi Minh si tramutarono, in questi sogni ad occhi aperti, nei paesi dell’Utopia. Questa fervente aspettativa si tradusse in un genere turistico, il pellegrinaggio politico, e in un peculiare genere letterario, il reportage fantastico-politico. Nei resoconti di viaggio, destinati ad influenzare l’opinione pubblica occidentale, questi visitatori ribaltarono talvolta in modo grottesco la realtà, finendo per giustificare l’intolleranza, la violenza repressiva, la miseria di massa. Come è possibile che proprio gli intellettuali, la cui caratteristica più tipica dovrebbe essere il pensiero critico, si siano ingannati in maniera così eclatante? In un approfondito studio intitolato Pellegrini politici. Intellettuali occidentali in Unione Sovietica, Cina e Cuba (Il Mulino, 1988) il sociologo americano Paul Hollander si è addentrato nella psiche degli intellettuali, svelando la forza invincibile dell’illusione ideologica e della fede politica.

Il pellegrinaggio politico

Il pellegrinaggio politico, vale a dire il viaggio di tipo devozionale in paesi che esercitano un’attrazione ideologica, è un fenomeno che si è ripetuto più volte nel XX secolo. In questo libro vengono analizzati i pellegrinaggi politici degli intellettuali occidentali nei paesi comunisti tra il 1928 e il 1978. Nei loro scritti questi viaggiatori contrapponevano, quasi invariabilmente, i difetti delle società di provenienza alle virtù di quelle visitate. Tendevano a essere piuttosto critici ed aspri con le società di cui facevano parte, ma si mostravano sorprendentemente disinformati e benevoli con le società che visitavano. I loro resoconti di viaggio, pertanto, rivelano molte più cose sugli osservatori che sui paesi osservati.

Come è stato possibile, si chiede Paul Hollander, che intellettuali colti e sensibili riuscissero a trovare tanto affascinanti società come la Russia staliniana, la Cina maoista o la Cuba castrista, a ignorare o scusare tanto facilmente i loro difetti, a considerarle tanto superiori alle proprie? Come hanno fatto a non cogliere il carattere oppressivo di paesi visitati nei loro momenti più bui? Qual è il meccanismo psicologico o ideologico che ha permesso loro di prendere una posizione tanto indulgente?

Davanti a simili domande si viene afferrati da un senso di smarrimento profondo, perché si dà per scontato che la qualità principale degli intellettuali sia una disposizione critica, pronta a cogliere ogni contraddizione, ogni ingiustizia e ogni difetto del mondo sociale. Le testimonianze raccolte in questo libro, scrive Hollander, ci portano a riconsiderare certe opinioni largamente diffuse sul loro conto. La disposizione critica non sembra essere la caratteristica più determinante degli intellettuali occidentali. Anch’essi usano nei loro giudizi due pesi e due misure, e l’origine della loro indignazione morale è determinata dalle ideologie e dalle scelte di campo.

L’alienazione degli intellettuali negli anni trenta

All’inizio del XX secolo molti scrittori e artisti abbracciavano sottoculture bohemien assolutamente apolitiche, nelle quali esprimevano una generica condanna estetica della società industriale, del mondo degli affari, del potere del denaro, della morale vittoriana, in nome della “libera espressione della propria personalità”. Non proponevano un’alternativa alle istituzioni politiche ed economiche esistenti, e per questa ragione il loro sentimenti di estraneazione non si era ancora pienamente sviluppato.

La Grande Depressione iniziata nel 1929, esasperando repentinamente tutte le imperfezioni del sistema in cui vivevano, politicizzò in maniera decisiva l’alienazione degli intellettuali e degli artisti. Per molti si trattò di una conferma delle opinioni che avevano rispetto al marciume della società in cui vivevano. Una nuova forma di impegno prese il posto della ricerca dell’appagamento personale. Se prima i principali argomenti di conversazione erano il sesso e l’estetica, ora tutti iniziavano a parlare di politica.

L’incontro con il marxismo, osserva l’autore, gli offrì la possibilità di esprimere in maniera più sistematica la loro critica sociale. La concezione marxista del mondo forniva una spiegazione incredibilmente logica di tutti i fenomeni più dolorosi del tempo: la depressione, la disoccupazione, la povertà, la nascita del nazismo. All’improvviso, ogni cosa tornava al suo posto e acquistava un significato. L’ideale del socialismo aiutava a sconfiggere il pessimismo e la passività, e nell’impegno politico trovarono un’idea di senso, di eccitazione, perfino di esaltazione. Nel corso degli anni trenta si sviluppò pertanto tra gli intellettuali una diffusa tendenza all’estraneazione nei confronti delle società occidentali, e una ricerca spasmodica di modelli sociali alternativi.

La prima meta dei pellegrinaggi: l’Unione Sovietica

Molti di questi personaggi celebri attraversarono, tra gli anni trenta e gli anni sessanta, una fase di intensa passione filo-sovietica, che li portava a intraprendere pellegrinaggi politici nel paese che incarnava le loro speranze. Partivano verso l’Urss con un pregiudizio favorevole, ed apparivano entusiasti di tutto ciò che vedevano ancor prima di arrivare. La loro disposizione d’animo è esemplificata da un gesto di George Bernard Shaw, il quale prima di attraversare il confine sovietico aveva gettato una scorta di provviste dal treno perché era convinto che in Russia, paese dell’abbondanza, non ne avrebbe avuto bisogno.

In molti casi questi visitatori trovavano elettrizzanti delle circostanze insignificanti o perfino sordide e squallide. Altrove la sporcizia sarebbe stata deprimente, mentre qui sembrava “romanticamente proletaria”. Il diverso contesto e il presunto fine nobile attribuivano, agli occhi di questi occidentali entusiasti, un significato straordinario a eventi del tutto ordinari. I russi venivano solitamente descritti come più belli, sereni, generosi, capaci di sentimenti autentici, in armonia con la natura, dotati di spirito pubblico e indifferenti all’arricchimento personale. Nel popolo russo erano stati trasferiti, insomma, gli aspetti più venerati del “buon selvaggio”.

Un altro paradosso, ricorda Hollander, era la popolarità di cui godeva il sistema sovietico tra gli uomini di chiesa, non soltanto perché ci si sarebbe aspettato che fossero sensibili alla repressione politica, ma anche perché essi ammiravano un sistema dedito, di nome e di fatto, allo sradicamento della religione. Essi tuttavia ritenevano che l’Urss, al di là della sua natura antireligiosa, si avvicinasse agli ideali del cristianesimo molto più di quanto non facessero le società occidentali, che ai valori religiosi dedicavano una devozione soltanto finta.

Molti intellettuali progressisti ritenevano che la proprietà pubblica dei mezzi di produzione fosse una solida base per la costruzione di una società egalitaria. Grazie alle nazionalizzazioni, assicurava il giornalista americano Joseph Freeman, in Russia l’uomo medio era diventato “padrone di ogni cosa”. I cittadini sovietici, spiegava il critico letterario Edmund Wilson, “sentono ogni cosa realmente propria e di conseguenza sono pieni di attenzione verso tutto ciò che appartiene a loro. Un nuovo genere di coscienza pubblica alberga in queste folle”.

Il famoso scrittore Julian Huxley scriveva nel 1932, cioè al tempo della terribile carestia che stava falciando milioni di vite Ucraina, che l’Urss stava realizzando la giustizia sociale in “un sistema in cui le conquiste del lavoro, invece che andare in canali privati, andavano ad accrescere il livello generale di benessere della società”. Egli esaltava la pianificazione “scientifica” dell’economia, notando che in Russia “le città sembravano nascere nello spazio di una notte, spuntavano come funghi fuori dalle aride steppe per volere delle autorità centrali, e tutto avveniva in perfetta armonia con le risorse naturali della regione e con un’accurata pianificazione delle linee di comunicazione e di elettrificazione”.

Le attrazioni della società sovietica

Quasi invariabilmente questi visitatori generalizzavano dal particolare al generale. Sulla base di visite guidate frettolose e superficiali ad alcune istituzioni che avevano a che fare con il lavoro, la salute, l’istruzione o l’amministrazione della giustizia, esprimevano giudizi entusiasti sul sistema sovietico nel suo complesso. Oggi che siamo venuti a conoscenza delle atrocità dell’epoca staliniana, osserva Hollander, è difficile credere che ci fossero molti visitatori occidentali che trovavano il sistema penale sovietico esemplare per la sua difesa dei valori umani. Eppure, quasi tutti insistevano sul fatto che in Urss la prigione non avesse la funzione di castigo, ma di aiuto del condannato.

Stando alle loro descrizioni, il sistema sovietico di recupero degli esseri umani era così efficace che i criminali talvolta facevano domanda di essere ospitati. G.B. Shaw ad esempio riteneva che stare nelle prigioni sovietiche fosse un privilegio, se le si confrontava con quelle dei paesi capitalisti: “In Inghilterra un delinquente entra in prigione come un uomo normale e ne esce come un tipo criminale, mentre in Russia egli entra come un tipo criminale e ne verrebbe fuori come un uomo ordinario, se lo si convincesse a venire fuori del tutto. Ma per quanto ho potuto capire loro potevano star dentro quanto tempo volevano”.

Altri due celebri socialisti fabiani inglesi, i coniugi Beatrice e Sidney Webb, descrivevano con toni commossi i campi di lavoro forzato dove i prigionieri erano impegnati nella costruzione di canali sotto la sorveglianza della polizia politica, la OGPU (poi KGB): “Scontando le loro condanne, questi reclusi avevano la più grande delle occasioni. Quando capivano di essere impegnati in un lavoro di pubblica utilità, erano indotti ad entrare in una “competizione socialista” … per la quale facevano a gara a portare la più grande quantità di terra, o a costruire il più grande spezzone di muro di cemento … È piacevole pensare che questa partecipazione appassionata equivaleva a riconoscere ufficialmente la capacità dell’OGPU, non soltanto nel realizzare una grandiosa opera di ingegneria ma soprattutto nell’ottenere una vittoria nel campo della rieducazione umana”.

Creduloneria e manipolazione

Il culmine dell’incomprensione venne raggiunto con i grandi processi-purga di Mosca del 1936, orchestrati da Stalin contro i rivali di partito. Quasi tutti i visitatori occidentali giurarono sulla correttezza dei processi e sull’autenticità delle confessioni, per quanto incredibili potessero sembrare. In questa folta schiera possiamo trovare non solo il reporter del New York Times Walter Duranty e l’ambasciatore statunitense Joseph Davies, ma perfino celebrità letterarie come Bertolt Brecht, Lion Feuchtwanger, André Malraux, Henri Barbusse, Upton Sinclair. Questa creduloneria spaventosa era parte integrante del profondo convincimento della superiorità del sistema sovietico nel suo complesso. Finché c’era questo principio di fede, era possibile ignorare, giustificare, razionalizzare o spiegare i processi-purga.

Essendo ben disposti nei confronti del regime, non riuscivano nemmeno a considerare la possibilità di poter essere vittime di un elaborato schema di inganno. I tentativi, perfettamente organizzati, che il regime faceva per impressionare gli stranieri erano innovazioni autentiche, prodotte dall’enorme apparato di propaganda e dalla sua meticolosa attenzione al dettaglio. L’idea che potessero esserci simili manipolazioni era completamente estranea, a quel tempo, alla pubblica opinione.

Agli intellettuali, che erano fieri della loro capacità di vedere al di là degli inganni, non piaceva ammettere di essersi sbagliati e di essere stati turlupinati in maniera così grossolana. Per la maggior parte di loro sarebbe stato intollerabile arrivare alla conclusione che le loro valutazioni di quel sistema non erano altro che il prodotto della cinica manipolazione di quanto avevano visto e sperimentato. Rifiutarsi di ammetterlo, anche davanti all’evidenza, era un modo per salvare la propria rispettabilità.

Nell’inibizione ad esprimere atteggiamenti critici nei confronti dell’Unione Sovietica, commenta Hollander, c’era infine la paura di scrivere qualcosa che avrebbe potuto essere utilizzata dalla propaganda anti-sovietica in Occidente. Questi visitatori temevano che, se avessero scritto qualcosa di non positivo, essi si sarebbero automaticamente ed “obiettivamente” allineati alle forze della reazione e del male nelle loro società di appartenenza: si tratta di un timore che ancora oggi provano molti intellettuali progressisti quando compiono inchieste su regimi che si definiscono socialisti.

Il rifiuto della società occidentale negli anni della contestazione

A partire dalle manifestazioni di Berkeley del 1964 divampò in Occidente una seconda ondata di rifiuto della società. Una serie di circostanze, come la guerra del Vietnam, i conflitti razziali, ma soprattutto il generale senso di sicurezza e ricchezza materiale, contribuirono a creare lo spirito del tempo. Non era certo la prima volta nella storia moderna che la combinazione tra una piena soddisfazione dei bisogni materiali ed un relativo senso di sicurezza creavano inquietudine, disagio, ribellione politica. Come i romantici dell’Ottocento, molti giovani contestatori erano cresciuti stanchi della sicurezza, ed avevano iniziato a desiderare di vivere situazioni eccitanti. L’elemento determinante dell’attivismo ribelle della grande maggioranza degli studenti era semplicemente la noia.

Negli anni sessanta, tuttavia, non era più possibile lanciare nei confronti del capitalismo quel tipo di attacco frontale che negli anni trenta era stato incentrato sulla povertà e la disoccupazione. Poiché non si poteva più attaccare il capitalismo su tali basi economiche, il suo rifiuto avveniva, con un capovolgimento incredibile, a causa dei suoi successi produttivi. Le basi della critica sociale diventavano gli insignificanti valori materiali e l’individualismo competitivo. Gran parte della controcultura era, nel complesso, una ripetizione su scala di massa del ribellismo romantico a cui erano stati aggiunti elementi di critica sociale marxista.

Herbert Marcuse fu il principale teorico degli orrori spirituali derivanti dalla produzione di massa, della cultura di massa, dell’alta tecnologia, del capitalismo e delle istituzioni politiche occidentali. La critica sociale degli anni sessanta era dunque molto più elitista e snob di quanto lo fosse quella degli anni trenta. La polemica contro la ricchezza, invariabilmente definita “vuota”, e contro i valori della classe media, severamente censurata per la sua mancanza di idealismo e per la sua ristrettezza mentale, nasceva dall’incapacità di concepire la scarsità materiale. I giovani che abbandonavano gli studi e il lavoro regolare per dedicarsi ad attività edonistiche ed improduttive come il sesso, la droga e la musica credevano istintivamente (e giustamente) che non avrebbero perso le cose fondamentali della vita: cibo, case, “spinelli”, vestiti, impianti stereo, chitarre e auto a loro disposizione. Erano certi che qualcuno, i genitori o l’assistenza sociale, si sarebbe comunque preso cura di loro.

Allo stesso modo, osserva giustamente Hollander, la mancanza di rispetto e di paura nei confronti dell’autorità era dovuta al fatto che erano davvero incapaci di credere che da questo comportamento ne sarebbe derivata una qualche seria conseguenza. Affrontavano i processi nelle aule giudiziarie più come opportunità per denunciare e sbeffeggiare il sistema, piuttosto che come preludi a condanne di molti anni di prigione. Pochi tra i dissidenti e i contestatori si sentivano veramente e seriamente minacciati dal sistema che chiamavano “repressivo” dalla mattina alla sera. Anche quelli che erano in prima fila alle manifestazioni consideravano i tentativi maldestri dell’autorità di riportare l’ordine come delle occasioni per partecipare a un grande gioco eccitante.

Da questa alienazione nacque l’attrazione per modelli di società alternativi a quello occidentale. Poiché l’Urss aveva perso buona parte del suo potere di seduzione, le speranze si indirizzarono verso altri paesi socialisti come la Cina, il Vietnam, l’Albania, il Mozambico e Cuba. L’entusiasmo per la rivoluzione cubana fu una sorta di fuga da quella che i critici consideravano la soffocante e stagnante atmosfera degli anni ‘50. Cuba rappresentava simbolicamente la benvenuta liberazione, lo scarico di tutte le frustrazioni accumulate dopo un periodo di storia occidentale decisamente non rivoluzionario.

Tra gli intellettuali occidentali nacque un vero e proprio “culto degli eroi” della rivoluzione cubana. Jean Paul Sartre e Norman Mailer, ad esempio, descrivevano Fidel Castro e Che Guevara come individui vigorosi, belli, passionali, informali, non dogmatici, aperti, umani, potenti, ugualmente interessati ai problemi grandi e piccoli, che lavoravano instancabilmente alla rifondazione della loro società.

Il pellegrinaggio in Cina

Il pellegrinaggio verso la Cina comunista di Mao costituisce l’ultimo esempio di una ricerca, chiaramente infinita, di sistemi sociali superiori. L’interesse reverenziale nei confronti della Cina assunse le dimensioni di un diluvio. Per moltissimi intellettuali occidentali, infatti, la Cina aveva una funzione importantissima: veniva a rappresentare un esempio di un nuovo tipo di socialismo, assolutamente puro, senza nemmeno l’ombra delle crepe e delle tragiche esperienze del modello staliniano. Le speranze frustate dall’esito dell’esperimento sovietico, invece che stimolare la crescita dei dubbi sui progetti di ingegneria sociale e di sperimentazione su larga scala, o immunizzare contro le utopie, venivano prontamente trasferite sulla Cina.

Il culto della personalità di Mao, negli scritti di Simone de Beauvoir, Maria Antonietta Macciocchi, Alberto Jacoviello de L’Unità e tanti altri, superò quello di ogni altro leader comunista. Poiché non avevano alcun dubbio sulla rettitudine di Mao e dei suoi amici dirigenti, l’idea che potessero abusare del potere era per loro inconcepibile. Si spiega così la singolare indifferenza che gli intellettuali occidentali mostravano nei confronti della concentrazione del potere e della violazione dei diritti umani. Una volta definito benevolo e giusto un sistema sociale nel suo complesso, si ponevano pochi interrogativi rispetto ai metodi usati per la conservazione del potere.

L’esaltazione degli intellettuali occidentali per la Cina, osserva Hollander, costituiva un vero paradosso, dato che pochi regimi nella storia hanno trattato con più durezza, umiliato e privato di autonomia gli intellettuali e gli artisti. Durante la Rivoluzione culturale, che infuriò dal 1966 fino alla morte di Mao nel 1976, i libri venivano letteralmente distrutti, come anche molti monumenti e opere d’arte. Le librerie erano vuote, se non per i libri di Mao, Stalin, Kim Il Sung e Enver Hoxha; nella biblioteca nazionale di Pechino era stata cancellata ogni opera di carattere storico e letterario del XX secolo che non si conformasse all’ortodossia maoista; gli scrittori e gli artisti venivano ridotti al silenzio, imprigionati, torturati, deportati nelle campagne e costretti a fare lavori di servi, tra il plauso dei loro colleghi occidentali.

Le tecniche dell’ospitalità

Grazie al controllo su tutte le risorse del paese e sui cittadini, i paesi totalitari avevano ampie possibilità di modellare le impressioni dei visitatori stranieri. Gli stranieri vivevano in hotel riservati, pranzavano in sale da pranzo separate, acquistavano in negozi riservati, sui treni viaggiavano in scompartimenti riservati, alla stazione aspettavano in sale d’aspetto separate, all’ospedale erano curati in reparti separati. Le guide e gli interpreti che li seguivano ovunque erano in verità dei funzionari statali con un’autorità di cui i cittadini comuni erano ben consapevoli. La loro funzione era quella di “interpretare” la realtà per i visitatori, compresa la traduzione (o la traduzione falsata) della conversazione con la gente del posto. L’incubo ricorrente dei burocrati comunisti era che gli stranieri potessero avere dei contatti spontanei e non controllati con la gente, e facevano di tutto per impedirlo.

Le tecniche dell’ospitalità, cioè tutta quella serie di misure destinate ad influenzare la percezione e il giudizio degli ospiti, giocarono un ruolo chiave nella positiva predisposizione degli intellettuali occidentali. Anche nei periodi di grandi carestie, l’Urss riusciva a garantire un trattamento regale alle persone che riteneva importanti, vale a dire le élites del suo popolo e i visitatori esterni. Scriveva Victor Serge, uno dei primi sostenitori del regime sovietico: «La sola città che i delegati stranieri non riuscivano a conoscere … era Mosca dal vivo con i suoi razionamenti dei viveri, i suoi arresti … Abbondantemente nutriti in mezzo alla miseria generale … portati nei musei e negli asili-modello, i delegati socialisti di tutto il mondo avevano l’impressione di essere in vacanza».

Anche in Cina, a Cuba e in Vietnam gli ospiti importanti venivano abitualmente alloggiati in hotel di lusso, completamente spesati di tutto e con una schiera di servitori al loro servizio. A Shangai, l’economista di sinistra John K. Galbraith occupava una suite talmente grande che i suoi colleghi lo chiamavano Presidente; a L’Avana, Sartre era ospitato dal governo in una stanza d’hotel da milionari; perfino la Cambogia di Pol Pot investiva volentieri molte risorse nelle tecniche dell’ospitalità.

I privilegi e i comfort erano status symbol che riflettevano l’importanza del visitatore e, nello stesso tempo, contribuivano a creare uno stato d’animo piacevole, un senso di contentezza, una visione del mondo rosea. Questi visitatori non erano “corrotti”, ma non potevano che provare, al loro ritorno a casa, un sentimento di simpatia, ed essere difficilmente critici nei confronti di chi aveva mostrato verso di loro tanta gentilezza. C’era insomma una forte corrispondenza tra gli atteggiamenti delle due parti: i visitatori cercavano una conferma, per mezzo dell’esperienza, dei pregiudizi favorevoli che avevano dei sistemi sociali che visitavano, e i governi che li ospitavano erano pronti a dare ciò che quelli cercavano.

Il bisogno di credere degli intellettuali

Non c’è dubbio che i resoconti dei pellegrinaggi politici, sia degli anni trenta che degli anni sessanta e settanta, mettano in dubbio quella credenza diffusa secondo cui una caratteristica fondamentale degli intellettuali sia la loro disposizione critica. Molti di loro si trasformarono infatti in fiduciosi ammiratori, in accesi propagandisti, in zelanti sostenitori privi di dubbi o incertezze. Come si spiega questo atteggiamento?

In maniera alquanto inaspettata, gli intellettuali si sono rivelati i meno capaci, tra tutti i gruppi sociali, ad affrontare senza dolore il vuoto spirituale derivante dal processo di secolarizzazione che ha investito la società occidentale nell’ultimo secolo. Per molti di loro, le speranze e le certezze politiche hanno preso il posto delle consolazioni e delle certezze religiose. La concezione finora prevalente, secondo cui gli intellettuali tendono ad essere razionali, scettici, critici e distaccati, ha fatto sì che si sottovalutasse il loro bisogno di credere che, probabilmente, è più forte del corrispondente bisogno che ha la gente comune.

Era la terribile urgenza di trovare senso e significato alla vita che portava gli intellettuali a dare pieno sostegno e legittimazione a ogni sistema politico o movimento che rivendicasse il carattere socialista. In un mondo in cui “gli dei si erano ritirati”, la politica venne a fornire nuove oggetti di devozione. È stata dunque la fascinazione per il mito del socialismo a provocare la sospensione dell’attività di pensiero critico per larghe schiere di intellettuali occidentali.

Immuni alla terapia-shock dei fatti

La maggior parte dei visitatori sapeva poco o niente degli episodi di violenza e di coercizione politica, dei privilegi delle élites, della massiccia opera di propaganda, della gigantesca e inutile burocrazia, dell’enorme distanza tra la teoria e la realtà dei paesi comunisti che ammiravano. Ma anche quando venivano sottoposti a una “shock-terapia dei fatti”, raramente ne traevano profitto. La maggior parte delle persone di solito non ha alcun desiderio di provocare una “dissonanza” tra i propri saldi convincimenti e i fatti che possono metterli in discussione. La prima linea di difesa degli intellettuali militanti era il disconoscimento delle informazioni: quando non volevano esprimere la loro indignazione per certe atrocità, la loro immediata reazione era negare l’esistenza della cosa, minimizzarla o dubitare dell’attendibilità delle fonti che ne parlavano, come faceva Noam Chomsky, il quale esprimeva dubbi sull’attendibilità dei resoconti dei profughi che scappavano dalla Cambogia di Pol Pot.

Un altro mito che dev’essere accantonato, secondo Hollander, è la credenza nell’impegno inflessibile per la libertà, e in particolare per la libertà di espressione. L’assenza di libertà molto di rado interessava i visitatori o comunque interferiva con il fascino che avevano per queste società. Nei casi in cui si accorgevano della mancanza di libertà individuale – e questo era già un fatto degno di nota – la scusavano con le ben note spiegazioni della necessità temporanea, oppure la giudicavano una manchevolezza di secondaria importanza, ampiamente compensata dalle realizzazioni di quei regimi.

Molti di loro rifiutavano l’idea che un sistema che assicura la libertà d’espressione, la quale costituisce la base principale della loro esistenza professionale e morale, meritasse un qualche sostegno, ed esprimevano la loro ammirazione per società in cui simili libertà non esistevano. A quanto pare ritenevano fosse possibile conservare il loro modo di vita relativamente affascinante, che gli permetteva di essere ostili verso il proprio sistema sociale, e allo stesso tempo privilegiati per quanto riguardava le condizioni materiali, lo status professionale e la libertà d’espressione. Rimane da vedere se, a causa delle loro ricorrenti illusioni, gli intellettuali occidentali contribuiranno alla distruzione delle società relativamente libere in cui vivono.

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9 COMMENTS

  1. Molto bello, una bella recensione di un bellissimo libro.
    Io vorrei fare solamente una osservazione. C’è un vizio di fondo in questa discussione: gli intellettuali.
    Il punto è che i sinistri NON possono mai entrare nella categoria degli intellettuali. Sono dei bigotti allucinati che vedono il mondo attraverso le loro allucinazioni. Se noi continuiamo a chiamarli “intellettuali” continuiamo a mandare in giro questa sciocchezza e a fargli una pubblicità gratuita.
    I sinistri si “autonominano” intellettuali, come Marx è definito un economista. Una assurdità.
    Chi non è di sinistra deve smetterla di chiamare “intellettuali” questi opportunisti, forse ingenui, forse furbi, sicuramente interessati. Sono persone esattamente all’opposto di un intellettuale.

  2. Articolo magistrale, di una lucidità e profondità di analisi ultra-raffinate. Complimenti all’autore e alla redazione.

  3. Eh sì gli intellettuali dovrebbero essere i più svegli, ma son stati spesso i più fessi. Meglio un onesto ignorante che non si sente nessuno, di chi pensa di appartenere a un élite che ne capisce più di tutti gli altri, e poi si dimostra sempre completamente in errore.

  4. L’Italia, quel Paese super gonfiato per convincere gli stolti, finito nel cesso del mondo. La caduta ci pone al 63esimo posto per la qualità della vita e all’ultimo posto per la ripresa. Per i giovani, nessun futuro neanche pregando in ginocchio Santo Speranza. Dopo il Fascismo, il Paese é scivolato in una Dittatura di gruppo denominata Democrazia all’Italiana.

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