di MATTEO CORSINI
Su Domenica del Sole del 7 novembre Mario Ricciardi recensisce un libro di Michele Salvati e Norberto Dilmore (pseudonimo di un economista) dal titolo “Liberalismo inclusivo. Un futuro possibile per il nostro angolo di mondo”. L’articolo ha invece per titolo “Il liberalismo che serve all’Italia”.
Ricciardi loda il libro perché, a suo dire, “solo da un ripensamento critico, infatti, può venire un rilancio dell’iniziativa politica liberale in questo Paese.”
Perché vi sia un rilancio, è necessario che vi sia stata in passato una fase in cui il liberalismo ha avuto voce in capitolo. Circostanza che non si è verificata, anche volendo usare una definizione di liberalismo molto distante da quella “autentica”, dato che già un secolo fa Ludvig von Mises riteneva che il significato del termine fosse stato stravolto.
Se, poi, deve ritenersi “liberale” Salvati, la cui militanza politica è sempre stata a sinistra (PDS) anche quando esisteva ancora un partito liberale in Italia, i dubbi sul fatto che possa trattarsi del “liberalismo che serve all’Italia” in me si intensificano.
Secondo gli autori, “è possibile individuare una tensione permanente, ora sotterranea, ora esplosiva, tra la libertà economica, da un lato, e, dall’altro, l’esigenza di assicurare al più gran numero di cittadini migliori condizioni di benessere e una effettiva possibilità di attuare i propri progetti di vita.”
Essi contrappongono il “liberalismo inclusivo” al “fondamentalismo di mercato”. Quest’ultimo considerato negativo, ancorché sarebbe interessante chiedere ad autori e recensori quando mai abbia avuto spazio in Italia (e non solo).
Ma in sostanza cosa caratterizzerebbe il “liberalismo inclusivo”? L’introduzione di “vincoli alla libertà economica al fine di incanalarla verso il raggiungimento di obiettivi economico-sociali necessari alla stessa sopravvivenza di una economia di mercato e di una società liberale.” Va da sé che cosa sia “necessario” alla sopravvivenza dell’economia di mercato e alla società liberale lo stabiliscono coloro che propongono i “vincoli alla libertà economica”.
Aldilà delle denominazioni, non mi pare ci sia nulla di diverso dalla socialdemocrazia, o quella via intermedia tra liberalismo e socialismo che, come dimostrò con logica esemplare Mises, conduce al socialismo. Perché ogni “correttivo” al mercato (all’ordine spontaneo), a prescindere dalla condivisibilità degli obiettivi, genera conseguenze inintenzionali che inducono i “correttori” a porre in essere ulteriori interventi correttivi, in una sequenza che, appunto, ocnduce logicamente al socialismo integrale.
Non credo proprio che sia ciò serve all’Italia.