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Il Manifesto di Ventotene? No “La fattoria degli animali” di Orwell

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di MATTEO CORSINI

Si è molto parlato, negli ultimi giorni, del testo “Per un’Europa libera e unita”, meglio noto come Manifesto di Ventotene, scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni mentre si trovavano sull’omonima isola, messi al confino dal regime fascista. Testo che è diventato un vero e proprio feticcio, non solo in Italia.

Ha iniziato Giorgia Meloni, citando alcuni passaggi, tra i quali: “La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso”, oppure “Nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente”, e concludendo che quella non è la sua idea di Europa.

Come prevedibile, dall’opposizione sono insorti in modo sdegnato, e anche il progressismo che va per la maggiore tra intellettuali (definizione a volte generosa) e giornalisti ha rimproverato Meloni per aver estrapolato quei passaggi, peraltro senza tenere conto del contesto in cui furono scritti. Il che, a mio parere, è abbastanza ridicolo, dato che è prassi comune per la maggior parte di chi ha espresso sdegno. Ma tant’è.

Massimo Gramellini, per esempio, durante la sua trasmissione su La7, circondato da Fausto Bertinotti e Roberto Vecchioni, ha ricordato che Meloni non ha citato questo stralcio: “La solidarietà sociale verso coloro che riescono soccombenti nella lotta economica dovrà perciò manifestarsi non con le forme caritative, sempre avvilenti, e produttrici degli stessi mali alle cui conseguenze cercano di riparare, ma con una serie di provvidenze che garantiscano incondizionatamente a tutti, possano o non possano lavorare, un tenore di vita decente, senza ridurre lo stimolo al lavoro e al risparmio. Così nessuno sarà più costretto dalla miseria ad accettare contratti di lavoro iugulatori”.

Probabilmente Gramellini ritiene che tutti quanti debbano condividere quel passaggio, ma non è affatto detto che così debba essere, perché non è obbligatorio (non ancora, per lo meno) essere socialisti.

Il Manifesto di Ventotene, criticando il totalitarismo nazista e fascista, così come il comunismo sovietico, finisce per propugnare la costituzione degli Stati Uniti d’Europa, non prima che il potere sia stato preso da un partito rivoluzionario che sarebbe comunque socialista. Non va bene “un regime economico in cui le risorse materiali e le forze di lavoro, che dovrebbero essere rivolte a soddisfare i bisogni fondamentali per lo sviluppo delle energie vitali umane, vengono invece indirizzate alla soddisfazione dei desideri più futili di coloro che sono in grado di pagare i prezzi più alti; un regime economico in cui, col diritto di successione, la potenza del denaro si perpetua nello stesso ceto, trasformandosi in un privilegio senza alcuna corrispondenza al valore sociale dei servizi effettivamente prestati, e il campo delle alternative ai proletari resta così ridotto che per vivere sono costretti a lasciarsi sfruttare da chi offra loro una qualsiasi possibilità d’impiego”.

Ovviamente la “futilità” dei desideri non è soggettiva, ma suppongo coincida col punti di vista degli estensori del Manifesto. I quali affermano anche che “Gli uomini non sono più considerati cittadini liberi, che si valgono dello stato per meglio raggiungere i loro fini collettivi. Sono servitori dello stato che stabilisce quali debbono essere i loro fini, e come volontà dello stato viene senz’altro assunta la volontà di coloro che detengono il potere”.

Ed è curioso che partendo da una critica di questo genere, poi finiscano per volere una rivoluzione che dovrebbe essere guidata da uomini che decidono per tutti quanti.

Gli estensori del “Manifesto” sono convinti che, caduti i regimi nazisti e fascisti, si debbano superare i singoli Stati, nei quali ben presto tornerebbero al potere i reazionari e questo porterebbe nuove guerre. Quinvi via alla “definitiva abolizione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani”.

Al che uno potrebbe obiettare che rimarrebbe sempre la possibilità di conflitti tra blocchi continentali. E in effetti gli estensori mostrano coerenza quando scrivono che “quando, superando l’orizzonte del vecchio continente, si abbracci in una visione di insieme tutti i popoli che costituiscono l’umanità, bisogna pur riconoscere che la federazione europea è l’unica garanzia concepibile che i rapporti con i popoli asiatici e americani possano svolgersi su una base di pacifica cooperazione, in attesa di un più lontano avvenire, in cui diventi possibile l’unità politica dell’intero globo”.

Ma prima serve fare la rivoluzione. “La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane di vita. La bussola di orientamento per i provvedimenti da prendere in tale direzione, non può essere però il principio puramente dottrinario secondo il quale la proprietà privata dei mezzi materiali di produzione deve essere in linea di principio abolita, e tollerata solo in linea provvisoria, quando non se ne possa proprio fare a meno. La statizzazione generale dell’economia è stata la prima forma utopistica in cui le classi operaie si sono rappresentate la loro liberazione del giogo capitalista, ma, una volta realizzata a pieno, non porta allo scopo sognato, bensì alla costituzione di un regime in cui tutta la popolazione è asservita alla ristretta classe dei burocrati gestori dell’economia, come è avvenuto in Russia.”

Quindi c’è l’esigenza di instaurare un regime socialista, ma senza avere derive sovietiche. E questo, è il passaggio che, a mio parere, contribuisce più di tutti a rendere debole (per non dire di peggio) questo documento diventato un feticcio. Ma ci tornerò successivamente. Secondo gli estensori, il “principio veramente fondamentale del socialismo, e di cui quello della collettivizzazione generale non è stato che una affrettata ed erronea deduzione, è quello secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma – come avviene per forze naturali – essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittime”.

Quindi la “proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa, caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio”. Ciò tuttavia presuppone che ci sia qualcuno che decide, di volta in volta. E anche che sappia cosa è meglio per tutti quanti. Una presunzione che Hayek avrebbe definito “fatale”.

La caduta dei regimi totalitari non potrà essere seguita semplicemente dalla libertà, par di capire. “La caduta dei regimi totalitari significherà per interi popoli l’avvento della «libertà» sarà scomparso ogni freno ed automaticamente regneranno amplissime libertà di parola e di associazione”. Ma nelle “epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente. La pietosa impotenza dei democratici nelle rivoluzioni russa, tedesca, spagnola, sono tre dei più recenti esempi”.

Infatti, “Nel momento in cui occorre la massima decisione e audacia, i democratici si sentono smarrirti non avendo dietro uno spontaneo consenso popolare, ma solo un torbido tumultuare di passioni; pensano che loro dovere sia di formare quel consenso, e si presentano come predicatori esortanti, laddove occorrono capi che guidino sapendo dove arrivare; perdono le occasioni favorevoli al consolidamento del nuovo regime, cercando di far funzionare subito organi che presuppongono una lunga preparazione e sono adatti ai periodi di relativa tranquillità; danno ai loro avversari armi di cui quelli poi si valgono per rovesciarli; rappresentano insomma, nelle loro mille tendenze, non già la volontà di rinnovamento, ma le confuse volontà regnanti in tutte le menti, che, paralizzandosi a vicenda, preparano il terreno propizio allo sviluppo della reazione. La metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria”. 

Ma se qualcuno deve decidere per tutti quanti perché i tempi non sono maturi per organi che “presuppongono una lunga preparazione e sono adatti ai periodi di relativa tranquillità”, qual è la differenza con il totalitarismo?

Segue, poi, la motivazione dell’andare oltre gli Stati nazionali. “Se la lotta restasse domani ristretta nel tradizionale campo nazionale, sarebbe molto difficile sfuggire alle vecchie aporie. Gli stati nazionali hanno infatti già così profondamente pianificato le proprie rispettive economie che la questione centrale diverrebbe ben presto quella di sapere quale gruppo di interessi economici, cioè quale classe, dovrebbe detenere le leve di comando del piano. Il fronte delle forze progressiste sarebbe facilmente frantumato nella rissa tra classi e categorie economiche. Con le maggiori probabilità i reazionari sarebbero coloro che ne trarrebbero profitto. Ma anche i comunisti, nonostante le loro deficenze, potrebbero avere il loro quarto d’ora, convogliare le masse stanche, deluse, assumere il potere ed adoperarlo per realizzare, come in Russia, il dispotismo burocratico su tutta la vita economica, politica e spirituale del paese. Una situazione dove i comunisti contassero come forza politica dominante significherebbe non uno sviluppo non in senso rivoluzionario, ma già il fallimento del rinnovamento europeo”.

Cosa li rendesse sicuri che le stesse dinamiche non si sarebbero riproposte in Stati Uniti d’Europa socialisti, francamente mi sfugge. E dato che questo documento ha ispirato le istituzioni europee, non suona beffardo sentire parlare di “dispotismo burocratico su tutta la vita economica, politica e spirituale” che avrebbe afflitto i singoli Paesi quando è proprio ciò che succede da anni anche a livello comunitario?

Ma chi avrebbe dovuto fare la rivoluzione? “Un vero movimento rivoluzionario dovrà sorgere da coloro che hanno saputo criticare le vecchie impostazioni politiche; dovrà sapere collaborare con le forze democratiche, con quelle comuniste, ed in genere con quanti cooperano alla disgregazione del totalitarismo, ma senza lasciarsi irretire dalla loro prassi politica.”

Promemoria

E ancora: “Il partito rivoluzionario non può essere dilettantescamente improvvisato nel momento decisivo, ma deve sin da ora cominciare a formarsi almeno nel suo atteggiamento politico centrale, nei suoi quadri generali e nelle prime direttive d’azione… Deve penetrare con la sua propaganda metodica ovunque ci siano degli oppressi dell’attuale regime, e, prendendo come punto di partenza quello volta volta sentito come il più doloroso dalle singole persone e classi, mostrare come esso si connetta con altri problemi e quale possa esserne la vera soluzione. Ma dalla schiera sempre crescente dei suoi simpatizzanti deve attingere e reclutare nell’organizzazione del partito solo coloro che abbiano fatto della rivoluzione europea lo scopo principale della loro vita, che disciplinatamente realizzino giorno per giorno il lavoro necessario, provvedano oculatamente alla sicurezza, continua ed efficacia di esso, anche nella situazione di più dura illegalità, e costituiscano così la solida rete che dia consistenza alla più labile sfera dei simpatizzanti”.

Inoltre: “Pur non trascurando nessuna occasione e nessun campo per seminare la sua parola, esso deve rivolgere la sua operosità in primissimo luogo a quegli ambienti che sono i più importanti come centri di diffusione di idee e come centri di reclutamento di uomini combattivi; anzitutto verso i due gruppi sociali più sensibili nella situazione odierna, e decisivi in quella di domani, vale a dire la classe operaia e i ceti intellettuali. La prima è quella che meno si è sottomessa alla ferula totalitaria, che sarà la più pronta a riorganizzare le proprie file. Gli intellettuali, particolarmente i più giovani, sono quelli che si sentono spiritualmente soffocare e disgustare dal regnante dispotismo. Man mano altri ceti saranno inevitabilmente attratti nel movimento generale”.

In questo gli estensori riconoscono gramscianamente che gli intellettuali servano per modellare e dominare la cultura, mentre ovviamente le masse operaie servono in quanto tali.

Di più: “Durante la crisi rivoluzionaria spetta a questo partito organizzare e dirigere le forze progressiste, utilizzando tutti quegli organi popolari che si formano spontaneamente come crogioli ardenti in cui vanno a mischiarsi le forze rivoluzionarie, non per emettere plebisciti, ma in attesa di essere guidate. Esso attinge la visione e la sicurezza di quel che va fatto, non da una preventiva consacrazione da parte della ancora inesistente volontà popolare, ma nella sua coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società moderna. Dà in tal modo le prime direttive del nuovo ordine, la prima disciplina sociale alle nuove masse. Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo stato e attorno ad esso la nuova democrazia”. La “coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società moderna” sono, lo ripeto, la classica presunzione fatale di qualsiasi socialista.

Però, “Non è da temere che un tale regime rivoluzionario debba necessariamente sbocciare in un nuovo dispotismo. Vi sbocca se è venuto modellando un tipo di società servile. Ma se il partito rivoluzionario andrà creando con polso fermo fin dai primissimi passi le condizioni per una vita libera, in cui tutti i cittadini possano veramente partecipare alla vita dello stato, la sua evoluzione sarà, anche se attraverso eventuali secondarie crisi politiche, nel senso di una progressiva comprensione ed accettazione da parte di tutti del nuovo ordine, e perciò nel senso di una crescente possibilità di funzionamento di istituzioni politiche libere”.

Quindi gli estensori non escludevano che ci sarebbe stato un nuovo dispotismo. Semplicemente ritenevano che non sarebbe stato un esito necessario. Riconoscendo, tuttavia, che sarebbe servito “polso fermo fin dai primissimi passi”, per creare “le condizioni per una vita libera”. E quando si fosse giunti a “comprensione ed accettazione da parte di tutti del nuovo ordine”, allora avrebbero potuto esserci “istituzioni politiche libere”.

Personalmente, se qualcuno mi sottoponesse un documento del genere non lo sottoscriverei. Non solo perché non sono socialista, ma perché non avrei alcuna fiducia nel passaggio dal “polso fermo” alla libertà.

George Orwell, che il socialismo lo aveva capito bene (penso meglio degli estensori del Manifesto di Ventotene), scrisse, pochi anni dopo l’estensione di questo Manifesto, “La fattoria degli animali”. Io credo che dopo la fase del “polso fermo” ci sarebbe quella in cui tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri. Come d’altra parte è sempre successo in qualsiasi esperimento socialista, rivoluzionario o meno che fosse.

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1 COMMENT

  1. “Accettazione da padte di tutti del nuovo ordine”. Ecco dove gli estensori del manifesto si rivelano rei confessi. E dove i loro difensori si manifestano rei con fessi (questi ultimi al guinzaglio dei rei).

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