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Il miracolo economico israeliano ed il suicidio italiano

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ISRAELEdi GUGLIELMO PIOMBINI

Il miracolo economico israeliano

Facciamo un salto indietro di trent’anni. Alla metà degli anni Ottanta l’Italia era uscita dal tetro clima della contestazione e del terrorismo, e si trovava in un periodo di ripresa economica. Di lì a poco, nel 1987, il governo annunciò il “sorpasso” del Pil sulla Gran Bretagna, che assegnò per un breve periodo all’Italia il posto di quinta potenza industriale del mondo (anche se probabilmente si trattò, come scrisse L’Economist, di un “gioco di prestigio statistico”). In Israele, invece, la situazione economica era disastrosa. Le centrali sindacali determinavano gli indirizzi di governo di un’economia quasi interamente nelle mani dello Stato. L’inflazione era a tre cifre, il deficit pubblico era fuori controllo e l’industria ristagnava.

Nei trent’anni successivi, tuttavia, la situazione migliorò in maniera sorprendente. Questi numeri, riportati dal giornalista israeliano Yacov Pedhatzur Wiedhopf, illustrano in maniera eloquente il miracolo economico israeliano.

ISRAELE                                          1984                           2014               

Popolazione                                        4.100.000                   8.200.000

Inflazione annua                                447 %                         1,5 %

Interesse bancario annuo                    771 %                         5 %

Deficit governativo                             17 %                           2,5 %

Percentuale del PIL alla difesa        20 %                           5,5 %

Riserve di valuta estera (in dollari)     3,3 miliardi                 90 miliardi

Esportazioni    (in dollari)                   10 miliardi                  90 miliardi

Esportazioni di tecnologia (in dollari) 0                                 28 miliardi

Impiego femminile                             30 %                           53 %

Produzione merci e servizi (in dollari)            30 miliardi                  320 miliardi

Prodotto procapite (in dollari)             7.000                          39.000

Questo sì che è un boom economico! Negli ultimi trent’anni Israele ha raddoppiato la popolazione, ha più che decuplicato il Pil e ha moltiplicato di quasi sei volte il reddito procapite. Nel frattempo ha abbattuto l’inflazione, il deficit statale e la spesa pubblica per la difesa.

Le riforme di Benjamin Netanyahu

Oggi molti riconoscono a Benjamin Netanyahu il merito di aver innescato il boom economico con le sue riforme del 2003-2005, approvate quando era ministro delle finanze. In quegli anni Netanyahu espresse in pubblico la convinzione che l’unico settore veramente produttivo fosse quello privato. Nella conferenza di Cesarea del 2004, che riuniva i leader industriali e finanziari del paese, disse che «creare nuovi posti di lavoro nel settore pubblico non serve a niente … Se chiedessimo ai cittadini israeliani cosa desiderano di più, maggiori servizi pubblici o meno tasse, la quasi totalità della popolazione risponderebbe: “Meno tasse! Meno tasse!». In un altro suo discorso utilizzò l’allegoria di un uomo magro, il settore privato, costretto a portare sulle spalle un uomo obeso, il settore pubblico: «Il settore statale compete con quello privato per gli stessi fattori di produzione. Quindi tutte le volte che il settore pubblico si contrae, quello privato migliora».

Invece di “stimolare la ripresa” con programmi di spesa in deficit, Netanyahu incentrò tutte le sue riforme sul lato dell’offerta. Liberalizzò i mercati, abbassò le tasse (per 2 miliardi di dollari negli anni 2004 e 2005), ridusse i sussidi del welfare state, privatizzò decine di imprese statali tra cui la compagnia aerea El Al, la compagnia telefonica Bezeq, la compagnia di trasporti Tzim, le raffinerie petrolifere e le banche Discount e Leumi. «Le privatizzazioni –spiegò Netanyahu – sono nell’interesse di tutti, perché il settore privato gestisce le compagnie meglio del governo» (Dani Filc, The Political Right in Israel, 2009, p. 63 ss.).

Un altro passo importante fu la privatizzazione quasi integrale del sistema pensionistico. I fondi pensione sono ora gestiti da compagnie d’investimento private che cercano i migliori rendimenti sul mercato, mentre lo Stato si limita a un ruolo di regolamentazione e supervisione, controllando che i datori di lavoro e i lavoratori versino ai fondi pensione quanto prescritto dalla legge (The Jerusalem Post, 18/08/2014).

Start-Up Nation

Una delle riforme di maggior successo fu la liberalizzazione e la detassazione del settore finanziario, che ha favorito enormi investimenti privati nella ricerca. Grazie ai vantaggi fiscali di cui godono i capitali di rischio, questo paese è diventato il paradiso delle aziende che sperimentano nuove tecnologie. Come riportano Dan Senor e Saul Singer nel libro Start-Up Nation (tradotto in italiano nel 2012 da Mondadori con il titolo Laboratorio Israele), lo Stato ebraico ha oggi la più alta concentrazione di ingegneri e scienziati al mondo, la maggior percentuale di utilizzatori di internet e la più alta densità di imprese start-up al mondo: nel 2008 erano ben 3.850, una ogni 1.844 israeliani. In Israele risiedono più aziende quotate nel Nasdaq che in tutta l’Europa.

Le liberalizzazioni del settore finanziario hanno favorito inoltre l’afflusso di una gran quantità di investimenti esteri. Negli anni immediatamente successivi alle riforme Israele riuscì ad attirare, su basi pro-capite, capitali privati equivalenti a quelli della Germania e della Francia messe insieme. I venture capitalists investirono nelle aziende tecnologiche israeliane due volte e mezzo il valore pro-capite investito negli Stati Uniti. Tra le grandi storie di successo si possono ricordare la tecnologia Centrino per i computer portatili sviluppata dagli ingegneri israeliani per l’Intel, e il centro di ricerca aperto dalla Cisco nel 1998, che ha svolto un ruolo decisivo nello sviluppo del router CRS-1. Nel complesso questa compagnia ha investito nel settore tecnologico israeliano 1,2 miliardi di dollari. Nel 2008 il anche il grande investitore Warren Buffett ha fatto il primo investimento non americano della sua vita, pagando 4,5 miliardi di dollari per Iscar, una compagnia israeliana di macchinari industriali.

Il suicidio economico dell’Italia

fallitalia1Se negli anni Ottanta Israele era un caso disperato e l’Italia l’orgogliosa “quinta potenza industriale”, oggi le posizioni si sono completamente ribaltate. L’Italia non è neanche più fra le prime dieci economie mondiali, e in quest’arco di tempo Israele l’ha superata quanto a reddito pro-capite (quasi 33.000 dollari contro 30.000), competitività internazionale (Israele è al 27° posto, l’Italia è al 49°), libertà economica (Israele è al 33° posto, l’Italia all’80°). Mentre in Israele dal 2001 a oggi il pil è raddoppiato, con tassi di crescita annui del 4-5 %, in Italia dal 2001 al 2013 il pil procapite è calato del 6,5%.

Come si spiega questo rovesciamento della fortuna? Cosa è successo in Italia negli ultimi vent’anni? Mentre in Israele si smantellavano i residui del socialismo reale e si puntava sull’imprenditoria come forza trainante dell’innovazione e dello sviluppo, in Italia si affermava una visione opposta, secondo cui i problemi del paese nascerebbero dal “mercatismo”, dalla deregulation dei mercati finanziari e dall’evasione fiscale dei lavoratori autonomi. Mentre Israele è diventato il paese più favorevole all’imprenditorialità che vi sia sulla terra, in Italia la figura dell’imprenditore è stata associata a quella dell’evasore, dell’elusore, dell’approfittatore, del delocalizzatore, del nemico del proprio paese. In Italia i modelli da imitare, gli eroi che campeggiano sulle prime pagine dei giornali e nei titoli dei notiziari, non sono gli innovatori creativi e i manager delle start-up, ma i dirigenti delle agenzie delle entrate come Attilio Befera e Rossella Orlandi.

Da questo clima culturale ha preso il via una vera e propria caccia all’uomo contro i lavoratori autonomi, con tanto di propaganda mediatica, insulti, intimidazioni, minacce, delazioni, sanzioni spropositate per minime mancanze, accertamenti fiscali gonfiati e spesso infondati, senza contare l’aumento esponenziale degli adempimenti burocratici e della pressione fiscale, salita di 5 punti tra il 2005 e il 2012. La situazione ha cominciato a farsi molto pesante per le imprese già nel 1997 con l’introduzione dell’Irap. È seguita poi la creazione di Equitalia nel 2005, il suo potenziamento nel 2006, la reintroduzione del solve et repete nel 2011: tutte misure che hanno portato alla chiusura o alla fuga all’estero di centinaia di migliaia di aziende, a migliaia di suicidi e alla peggior depressione economica della storia repubblicana.

Il confronto tra la storia di Israele e dell’Italia degli ultimi decenni ci offre una lezione chiara: le nazioni prosperano e fioriscono quando la libera impresa, l’imprenditorialità e la capacità d’innovazione vengono ammirate e celebrate. Al contrario, li paesi che perseguitano, criminalizzano e tartassano i ceti più creativi e produttivi finiscono sempre nel caos e nella miseria. Alla base del suicidio dell’economia italiana vi è dunque una sorta di delirio ideologico che ha contagiato una vasta fetta della popolazione. Gli storici del futuro faticheranno a spiegare perché i governi italiani, appoggiati dalla maggioranza dell’opinione pubblica, abbiano portato deliberatamente alla rovina un tessuto imprenditoriale tra i migliori del mondo. Purtroppo le epoche di follia collettiva non sono infrequenti nella storia.

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