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Il neomarxismo di Piketty serve a giustificare la tirannia fiscale

Da leggere

di GUGLIELMO PIOMBINI

Incomprensione dell’azione umana

Anche la sua impostazione macroeconomica lo porta a conclusioni fuorvianti. Nel libro il reddito e il capitale hanno sempre e solo l’aspetto di grandi aggregati numerici; la ricchezza non è mai “prodotta” o “guadagnata”, ma sempre e solo “ricevuta” o “redistribuita”; il capitale appare come una grande massa omogenea che genera automaticamente un rendimento. Armeggiando con questi aggregati, Piketty ritiene di aver individuato, in due equazioni algebriche riguardanti il rapporto tra capitale e reddito, nientemeno che le due “leggi fondamentali del capitalismo”.[1]

Sono formule che, se possono avere un senso dal punto di vista contabile, non hanno alcun significato economico, perché trascurano i ben più rilevanti aspetti microeconomici dell’azione umana, dell’imprenditorialità, del rischio, dell’incertezza, della previsione del futuro. Egli immagina che questi aggregati interagiscano tra loro come se avessero una vita propria, indipendente dall’iniziativa, dalla creatività e dalla scelta umana.[2]

Il capitale non è un agglomerato indistinto, un blob che cresce su se stesso. Il capitale è costituito da un’infinità di elementi eterogenei che vengono utilizzati nella produzione, ciascuno con diverse caratteristiche. Diversi tipi di capitali hanno diverse redditività. Tra essi risalta particolarmente il capitale umano, sul quale molte persone investono intensamente nella propria vita, ma che Piketty non considera probabilmente perché difficile da quantificare nelle sue formule matematiche.

Nella vita reale il capitale non genera automaticamente un rendimento del 5 o del 6 % all’anno per il solo fatto di esistere. Produce frutti solo se ben investito, cioè se aggiunge valore all’economia. Il miglioramento delle condizioni di vita degli ultimi secoli si deve al fatto che i proprietari del capitale l’hanno impiegato in maniera efficiente, rendendo più produttivo il lavoro umano. Purtroppo, questa fondamentale funzione economica dei possessori di capitali non gioca alcun ruolo nell’analisi di Piketty.[3]

La difficile attività del capitalista

Se è vero quello che dice Piketty, che il possesso di un capitale garantisce un arricchimento automatico, allora la soluzione più ovvia per migliorare la condizione dei lavoratori non è quella di tassare e confiscare i capitali, ma di trasformare i lavoratori in capitalisti privatizzando ad esempio i sistemi pensionistici pubblici. Tuttavia, contraddicendosi in pieno, Piketty si dichiara contrario alla privatizzazione della previdenza pubblica perché a suo avviso sarebbe troppo rischioso data la volatilità e l’incertezza dei mercati finanziari. In verità i fondi pensione, potendo diversificare e operando nel lungo periodo, sono assai meno volatili e rischiosi dei capitali d’impresa.[4]

Il fatto che i capitalisti rischino il proprio capitale senza avere alcuna garanzia di un rendimento non riceve la minima attenzione nel lavoro di Piketty, ma accrescere o anche solo conservare un patrimonio non è affatto una cosa semplice. Lo dimostra l’elevata mobilità nella graduatoria delle persone più ricche. Dei 400 americani più ricchi nella classifica di Forbes del 1982, meno di uno su dieci è ancora presente trent’anni dopo. Dei 20 maggiori patrimoni nella classifica del 2013, ben 17 (cioè l’85%) sono stati accumulati da self-made men. Dei tre rimanenti solo uno appartiene a una famiglia che l’ha conservato per tre generazioni (i proprietari dei dolciumi Mars). Gli altri due appartengono ai fratelli Koch, che hanno ereditato una fortuna ma l’hanno considerevolmente accresciuta grazie alla loro abilità imprenditoriale; e ai proprietari di WalMart eredi di Sam Walton, un imprenditore di umili origini che si è fatto da sé.

Se guardiamo a livello mondiale, tutti coloro che erano in vetta alla prima classifica compilata da Forbes nel 1987 sono usciti di scena, insieme ai loro eredi. Nel 1987 l’uomo più ricco del mondo era il giapponese Yoshiaki Tsutsumi, con una fortuna stimata di 20 miliardi di dollari. L’ultima volta che è apparso in classifica è stato nel 2006, e oggi il suo patrimonio vale circa 678 milioni di dollari: è calato del 96 % dal 1987, mentre secondo la formula di Piketty avrebbe dovuto crescere di sei volte! Il patrimonio del secondo, Taichikiro Mori, è calato in trent’anni dell’80%, mentre del terzo e del quarto, altri due giapponesi che avevano investito nel settore immobiliare, si sono perse le tracce.

Dei primi dieci solo tre sono riusciti a conservare senza perdite il proprio patrimonio. Le migliori performance sono state quelle dei fratelli Rausing proprietari di Tetra Pak, con un rendimento annuo del 2,7 %, e del canadese Kenneth Ray Thomson, che ha ottenuto da allora un rendimento annuo del 2,9%: in ogni caso siamo ben lontani dai tassi superiori al 6% calcolati da Piketty. Tutti i nomi degli uomini più ricchi di oggi, come Bill Gates, Larry Ellison, Jeff Bezos, Larry Page, SergeyBrin e Mark Zuckerberg, nel 1987 erano sconosciuti.[5] Questi imprenditori sono diventati miliardari perché hanno creato beni e servizi altamente apprezzati dai consumatori. Hanno guadagnato i loro redditi non tanto grazie al capitale, quanto all’innovazione tecnologica. Cosa ci sarebbe di “arbitrario” e “antimeritocratico” in questo?

La verità è che, contrariamente a quello che molti pensano e che Piketty afferma di aver dimostrato, non è facile conservare un patrimonio all’interno di un’economia di mercato, perché sulle performance degli investimenti influiscono fattori spesso imprevedibili: cambiano le preferenze dei consumatori, emergono nuovi concorrenti, salgono o scendono i prezzi degli asset.

I burocrati, i veri rentier del XXI secolo

Esistono però delle rendite sicure e crescenti che non riflettono il valore aggiunto all’economia e che non subiscono gli alti e bassi del mercato, ma i personaggi che le percepiscono non sono quelli messi sotto accusa da Piketty. Le entità dei loro patrimoni raramente sono note, perché non amano renderli pubblici: anzi, si sforzano in ogni modo di occultarli invocando il rispetto della privacy. Stiamo parlando dei membri della classe politico-burocratica, dei funzionari pubblici, dei cosiddetti “servitori dello Stato”: tutti coloro, cioè, che ricevono una rendita sicura dallo Stato, e che sono gli autentici rentier parassitari del nostro tempo.

Chi opera nel mercato sa per esperienza quanto sia impegnativo convincere il pubblico a spendere del denaro per i beni e servizi offerti. Per questa ragione, si potrebbe dire, è stato inventato lo Stato. A differenza dei mezzi economici basati sullo scambio volontario, i mezzi politici basati sulla costrizione assicurano infatti un flusso continuo e sicuro di entrate ai loro beneficiari. Oggi è molto più facile far soldi introducendosi nel mondo della politica o nel settore pubblico, che non facendo l’imprenditore: provare per credere. Piketty, ha osservato Nicolas Lecaussin, è un dipendente pubblico che, come la maggior parte degli economisti francesi,quasi per definizione non capisce il business: «Come può scrivere di rendimenti del capitale e proporre politiche radicali senza aver mai assunto il minimo rischio in vita sua? Che comprensione reale, derivante dall’esperienza pratica e non dai manuali, può avere una persona che non ha mai fondato un’impresa, sofferto un fallimento, superato un momento difficile per gli affari, e lottato per conquistare i mercati? I pensatori come lui sono troppo teorici e distanti dalla realtà».[6]

Piketty, tuttavia, non prende in considerazione le ingiuste disuguaglianze a sfavore dei poveri create dallo Stato attraverso la politica monetaria, i monopoli legali, le norme corporative, le tariffe protettive, la tassazione elevata dei ceti produttivi più umili, gli emolumenti e i vitalizi faraonici concessi alle agiate categorie statali. In quest’ultimo campo l’Italia batte ogni record mondiale, ma la tendenza del settore pubblico a ottenere privilegi a scapito del settore privato è presente un po’ dappertutto in Occidente. Nel Regno Unito, ad esempio,è normale per gli amministratori dei servizi pubblici percepire stipendi che vanno dalle 400mila alle 800mila sterline all’anno, mentre sono decine di migliaia i semplici impiegati pubblici che guadagnano più di 100mila sterline all’anno. Anche negli Stati Uniti i funzionari federali guadagnano mediamente l’84% in più degli impiegati del settore privato.[7]

Perché Piketty non accenna alle disuguaglianze create dall’intervento pubblico? Probabilmente perché avrebbe dovuto mettere sotto accusa se stesso e la classe a cui appartiene. Non vi è dubbio infatti che Piketty faccia parte della “classe dirigente”, cioè di uno strato sociale privilegiato.[8] Egli rappresenta la quintessenza di quella Nuova Classe di educatori, intellettuali, burocrati, tecnocrati, giornalisti, artisti, magistralmente descritta da Joseph Schumpeter e da Ludwig von Mises, che pur godendo di tutti gli enormi vantaggi del capitalismo alimentano l’odio nei suoi confronti.[9]I membri di questa classe sono generalmente benestanti e privilegiati ma trovano insopportabile che il libero mercato retribuisca gli imprenditori, i capitalisti o i manager più di loro.

Apologia del totalitarismo fiscale

Attualmente la classe politico-burocratica gode di poteri e privilegi, e gestisce il 50% del prodotto interno lordo in molti paesi occidentali. Si tratta di una presenza enorme e ingombrante sulla scena sociale, ma per Piketty e soci sembra che non esista. La classe burocratica ha giocato un ruolo da assoluta protagonista nel destino di molti paesi del mondo negli ultimi cent’anni, accaparrandosi quote enormi di risorse e di potere, eppure non compare mai nelle analisi della letteratura marxista contemporanea. Questo oblio, ma forse dovremmo parlare di occultamento, rivela tutta l’inconsistenza intellettuale di gran parte degli attuali pensatori socialisti.

Sebbene Piketty affermi di non essere un marxista o un anticapitalista, le sue idee sono altrettanto pericolose. Il sistema che propone mira a instaurare un sovrastato globale dotato di penetranti poteri polizieschi e fiscali, che danneggerebbe in maniera rovinosa quella crescita economica che, negli ultimi decenni, ha tirato fuori miliardi di persone dalla povertà. In Francia le idee di Piketty hanno ispirato l’imposta del 75% sui guadagni dei ricchi voluta dal presidente socialista François Hollande, poi abolita nel 2015 una volta constatati i suoi disastrosi effetti.

Con il pretesto dell’eguaglianza e della democrazia, il programma di Piketty minaccia seriamente le libertà individuali. Da quest’humus ideologico sono scaturiti i progetti totalitari di controllo fiscale edificati negli ultimi anni in numerosi paesi compresa l’Italia.[10] Se in altre epoche la violenza del potere si manifestava principalmente attraverso la schiavitù, la repressione del dissenso, la discriminazione, la coscrizione militare o la guerra, nell’Occidente di oggi ha assunto la forma della dittatura fiscale. Le idee di Piketty offrono una base intellettuale a questo inquietante sviluppo assunto dal potere politico nel XXI secolo.

(fine – qui la prima parte)

NOTE

[1] La prima legge è alfa = r x beta, cioè “il reddito da capitale nella composizione del reddito totale (alfa) è uguale al tasso di rendimento del capitale (r) per l’indice capitale/reddito (beta)”. Piketty calcola che la quota di capitale, a fronte di uno stock di capitale pari a sei/sette annualità ed un tasso di rendimento del capitale attorno al 4-5%, potrebbe assestarsi nel XXI secolo attorno al 30/40% del reddito mondiale (p. 88 s.). La seconda legge fondamentale del capitalismo, secondo Piketty, è beta = s / g, cioè “il rapporto capitale/reddito (beta) è uguale al tasso di risparmio (s) diviso il tasso di crescita (g)” (p. 254).

[2]Donald J. Boudreaux, “Get Real: A Review of Thomas Piketty’s Capital in the 21st Century”, in Anti-Piketty. Capital for the 21st Century, p. 186.

[3] Randall Holcombe, “Capital, Returns, and Risks: A Critique of Thomas Piketty’s Capital in the 21st Century”, in Anti-Piketty. Capital for the 21st Century, p. 209.

[4] Juan Ramón Rallo, “Thomas Piketty’s Great Contradiction”, in Anti-Piketty. Capital for the 21st Century, p. 61.

[5] Juan Ramón Rallo, “Where Are the ‘Super Rich’ of 1987?”, in Anti-Piketty. Capital for the 21st Century, p. 31.

[6] Nicolas Lecaussin, “The Sociology of Piketty’s Anti-RichStance”, in Anti-Piketty. Capital for the 21st Century, p. 49.

[7] Douglas Carswell, Rebel. How to overthrow the emergingoligarchy, Head of Zeus Ltd, London, 2017, p. 93-94.

[8] Come ha fatto acutamente notare Jonah Goldberg, “Mr. Piketty’s Big Book of Marxiness”, Commentary, 1 luglio 2014.

[9] Joseph A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, Etas, Milano, 2001 (1942); Ludwig von Mises, La mentalità anticapitalistica, Armando, Roma, 1988 (1956).

[10] In Italia, ad esempio, sono stati introdotti in poco tempo gli studi di settore, il redditometro, lo spesometro, le segnalazioni al 117, Serpico (il supercervellone elettronico che incrocia decine di migliaia di informazioni al secondo). E inoltre si sono avuti: l’abolizione del segreto bancario, i 400mila controlli all’anno sulle piccole imprese, i blitz contro la mancata emissione di scontrini, il limite all’utilizzo dei contanti, l’utilizzo del pos per le transazioni commerciali sopra i 30 euro, l’obbligo della fatturazione elettronica, e l’elenco potrebbe continuare.

UN’APPROFONDITA SINTESI DEL LIBRO IL CAPITALE NEL XXI SECOLO DI THOMAS PIKETTY USCIRÀ PROSSIMAMENTE SU TRAME D’ORO, CURATA DA CARLO ZUCCHI.

IN CONTEMPORANEA USCIRÀ ANCHE LA SINTESI DEL LIBRO ANTI-PIKETTY. CAPITAL FOR THE 21 CENTURY, LA REPLICA DEGLI AUTORI LIBERALI A PIKETTY, CURATA DA GUGLIELMO PIOMBINI.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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