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Il popolo e i nostri desideri di indipendenza

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di ALESSANDRO MORANDINI

indipendentismo padanoQuando pensiamo ai popoli padani, li desideriamo più o meno monoliticamente orientati all’indipendenza dallo stato italiano. Desideriamo che il nostro popolo sia come siamo noi, indefessi sostenitori della causa indipendentista. Per giudicare se il popolo è o non come noi lo desideriamo, ci affidiamo ad informazioni quali: sondaggi, esiti elettorali, partecipazione alle manifestazioni e cose di questo tipo. In conclusione ci riteniamo perlopiù abbastanza delusi, vorremmo appunto che il popolo si commuovesse e si esaltasse in vista della prospettiva dell’indipendenza e vediamo che invece le persone continuano a vivere la loro vita ed a considerare l’indipendenza dall’Italia con una certa freddezza o con scetticismo.

Eppure, noi che abbiamo più di quarant’anni, abbiamo già partecipato ad un autentico movimento popolare indipendentista. Anche allora non c’era tutto il nord a manifestare con noi. Il desiderio era il nostro, non quello degli italiani che anzi, con le loro organizzazioni, si erano mobilitati reagendo all’entusiasmo ed alla forza che esprimevamo.

Movimento popolare

Quando sorge un movimento, spesso inatteso, vuol dire che le istituzioni non sono più capaci di procurare neanche più una piccola parte dei desideri che molte persone hanno. Il desiderio di indipendenza dall’Italia è il desiderio di libertà di chi si sente, giustamente, ingabbiato in istituzioni desuete, incapaci di attivare autentiche procedure democratiche. E’ il desiderio di chi avverte che gli stati minimi, di piccole dimensioni, centrati sul rispetto delle libertà individuali offrono opportunità che i vecchi stati-nazione sono inadeguati ad accogliere. E’ abbastanza normale che questo desiderio si sia manifestato nel nord dell’Italia, dove i popoli hanno beneficiato in misura maggiore che nel resto del paese di una cultura della partecipazione e del lavoro e dove ci sono persone che ancora vogliono veramente bene alla propria terra.

E’ normale che le persone che nel nord Italia si sentono frustrate a causa di un’invadente presenza dello stato italiano, che riduce le opportunità di libertà, di lavoro, di partecipazione alla vita civile (per esempio riducendo la libertà con cui gli individui possono negoziare soluzioni riguardanti lo scambio di merci, servizi, lavoro), si attivino in movimenti di cambiamento sociale e confluiscano in un grande movimento politico. E’ normale perché qui, e molto meno al sud, la partecipazione è un valore non confinato esclusivamente alla solidarietà familiare ed il rapporto con lo stato, o meglio con la dimensione pubblica, non è banalmente opportunistico. E’ normale perché gli individui che abitano al nord e si sentono sfruttati e frustrati dall’invasione di uno stato tutto sommato straniero, hanno più opportunità di trovare una via di uscita collettiva. Non penso sia vero che i popoli padani, i Veneti, i Lombardi, i Friulani, perfino i Piemontesi siano ormai identici a quelli del sud Italia. Non penso sia vero che la diffusione di senso civico sia identica.

Quando le persone avvertono questo scarto tra istituzioni e vita reale nascono i movimenti, che in un primo momento non hanno bisogno di organizzazioni ben strutturate e democratiche perché le persone si riconoscono e si fidano le une delle altre. I movimenti, almeno in un primo momento, sono costituiti da piccoli gruppi e tanti leader, dai quali emergono poi i leader più importanti.

Le elezioni

Andare a votare non è quasi mai un comportamento razionale

Le persone quando vanno a votare devono pensare di avere delle buone ragioni per farlo. Ma il singolo individuo non agisce, in realtà, razionalmente. Un singolo voto non incide che in misura irrilevante sul risultato finale.

Si può essere mossi dalla constatazione che se tutti restassero a casa i risultati potrebbero essere catastrofici: “Fai la cosa che sarebbe la migliore se tutti facessero altrettanto”. Si deve ammettere che un imperativo di questo tipo o non costituisce una motivazione consequenzialista, o costituisce una forma di pensiero magico. O ci si disinteressa del comportamento degli altri e ci si accontenta di blandire la propria coscienza, o si pensa che anche gli altri ragioneranno come noi per il solo fatto che noi abbiamo ragionato in questo modo.

E’ abbastanza improbabile che la maggioranza delle persone si rechi alle urne a causa di una norma morale. Se, per qualche motivo, molti smettono di votare è molto probabile che anche l’elettore abituale smetta di farlo, magari perché recarsi alle urne diventa un comportamento socialmente disprezzato o ritenuto inutile.

In qualche raro caso andare o non andare  a votare è un comportamento razionale

Nelle piccole dimensioni, dove gli esiti delle decisioni pubbliche possono essere facilmente controllati dal singolo individuo, dove cioè la propaganda ha un peso minore, la democrazia diretta può anche, entro certi limiti, funzionare. L’individuo vota perché, in quei contesti, è razionale farlo, non perché è un comportamento giusto.

Il valore della partecipazione individuale alle decisioni collettive dipende infatti anche dal contenuto delle decisioni: se una comunità decide a maggioranza di uccidere le persone che hanno un cognome non riconducibile alla comunità delle origini, tutti i votanti sono responsabili della decisione. Solo non partecipando alla vita di quella comunità si può esprimere il fatto che il quesito non deve essere oggetto di disputa e che la comunità è malata.

Andare a votare è un fatto quasi sempre emozionale

E’ molto probabile che quando ci si reca a votare si pensi irragionevolmente di dare un utile contributo alla vittoria del proprio partito, del proprio candidato, della democrazia, anche se il contribuito è infinitesimale e, di fatto, ininfluente.

Relativamente alle grandi dimensioni degli stati-nazione intervengono, a questo proposito, tecniche di persuasione capaci di solleticare le emozioni delle persone. Dove le persone votano meno, queste stesse tecniche risultano ormai fallimentari. In America si spendono tantissimi soldi per campagne pubblicitarie sempre più sofisticate ma sempre meno convincenti. Senza costose campagne elettorali anche in Italia, sicuramente, sarebbero molto poche le persone coinvolte.

I piccoli partiti indipendentisti nella competizione elettorale

Nel mondo indipendentista ci si è chiesti per quale motivo la Lega Nord, nonostante le sue inconcludenze, resti tuttora il punto di riferimento elettorale di moli individui che desiderano l’indipendenza. Le altre organizzazioni non hanno mai avuto successo elettorale.

Ovviamente nei piccoli partiti, segnati dall’insuccesso elettorale, si tende ad attribuire un deficit di conoscenza e di coraggio agli elettori.

Se si crede che la propria proposta sia quella giusta, si deve, a posteriori, giustificare l’insuccesso. Quando si ha successo si dice: “il popolo ha capito”. Questi atteggiamenti non aiutano a comprendere i meccanismi. Sono delle storie raccontate ad hoc per far corrispondere agli eventi che accadono le proprie convinzioni. Raramente i protagonisti sono sfiorati dal dubbio che, per convincere gli elettori, non bastano le proprie credenze poco razionali e le proprie motivazioni.

I leader delle piccole organizzazioni venete devono tenere presente l’evoluzione che dagli anni ‘90 ad oggi ha avuto l’indipendentismo in Padania. Il modo in cui si è sviluppato l’indipendentismo da noi rende difficilissima la competizione elettorale per i piccoli partiti, che magari in altre circostanze potevano raggiungere massimi globali preferibili. Ciò non significa che le piccole organizzazioni non siano importanti, anzi. Ma se, per contribuire alla causa indipendentista, utilizzano gli stessi strumenti che usa la Lega Nord è molto probabile che, nel medio periodo, finiscano per soddisfare solamente i legittimi desideri egoistici dei loro leader.

Il voto indipendentista

Il desiderio dell’indipendenza è abbastanza diffuso.

Chi desidera l’indipendenza e la colloca in cima ad una precisa gerarchia delle preferenze, se ha sviluppato credenze razionali negative sulle infinite virtù della democrazia rappresentativa italiana non vota da tempo. Chi desidera l’indipendenza può, come si è visto, consolarsi con una quasi-credenza indipendentista ma ancorare il voto alla Lega ad altre motivazioni ed altri desideri. Salvini è un leader che appare abbastanza disinteressato alla causa originaria, ma continua a conservare una parte importante dei consensi di chi pur desiderando l’indipendenza vuole anche un argine all’immigrazione, vuole ridurre le tasse e risollevare l’Italia dalla crisi economica uscendo dall’Euro. Si tratta di preferenze cicliche, di desideri generici che non formano una precisa gerarchia.

Penso che i capi dei piccoli partiti indipendentisti che partecipano alle elezioni italiane, non considerino il fatto che oltre al desiderio, contano molto credenze, quasi-credenze e gerarchia delle preferenze. Per votare un piccolo partito indipendentista oggi, bisogna conservare la prospettiva dell’indipendenza della propria regione in cima ad una ordinata gerarchia di preferenze, per bloccare il meccanismo di formazione delle quasi-credenze, le quali soddisfano comunque il desiderio consolando l’individuo. Contemporaneamente bisogna conservare la credenza nelle infinite virtù della democrazia rappresentativa italiana. Condizioni un po’ troppo numerose e di difficile realizzazione, che riguardano infatti un numero limitatissimo di persone, per realizzare le quali bisogna veramente devono maturare una cieca fiducia in un capo molto persuasivo.

(5 – CONTINUA)

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