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Il Veneto post 1866? leggetevi bene Adolfo Rossi!

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veneto separatistadi PAOLO L. BERNARDINI

Aldilà del plebiscito-truffa del 1866 – ed è incredibile, veramente, che storici professionisti non accettino l’evidenza, semilavorati del sapere ancora a stadi preliminari del circuito di produzione, sgangherati imbrattacarte, simili solo ai loro pari americani “politicallycorrect”, che per mesi sosterranno che Trump ha truccato le elezioni, e per anni “che non ha veramente vinto” – occorre chiedersi una cosa. Se anche non ci fosse stata truffa – ma c’è stata, patavini, mettete il vostro naso colante negli archivi anziché organizzare vergognosi convegni celebrativi, vergogna, e vituperio – cosa è stato il Veneto dopo il 1866? Che cosa ne è stato del Veneto dopo il 1866? Allora, conviene che ripubblichi qui un mio vecchio articolo, su Adolfo Rossi. Quando si legge Rossi, si capisce lo scempio che i Savoia fecero del Veneto, “annesso” con la truffa, svilito e ridotto alla miseria più assoluta per decenni, fino almeno agli anni Sessanta del Novecento. Adolfo Rossi e la miseria di Rovigo lo scrissi nel 2011. Eccolo qui. Vorrei solo aggiungere una cosa, a beneficio dei pasciuti colleghi che celebrano l’annessione del Veneto. Vi era così tanta miseria, nel Polesine divenuto “italiano”, che si parlò di episodi di cannibalismo. Di certo, venivano disseppelliti armenti morti per malattia e fame, e diventano cibo per i contadini, quelli che erano rimasti, senza emigrare. Ma pare venissero diseppelliti anche gli uomini, e poi ci se ne pascesse. Purtroppo i servi popolano l’accademia, d’altra parte, come si dice in America – e il buon Don lo sa bene – “chi sa fa, chi non sa insegna”. Chi non sa fa, potremmo aggiungere noi, qualcosina anch’esso: “..un po’ ribrezzo”. Buona lettura.

Il libro curato da Gianpaolo Romanato, L’Italia della vergogna nelle cronache di Adolfo Rossi (1857-1921), pubblicato da Regione Veneto-Longo editore Ravenna nel 2011, ha molti meriti e qualche demerito. Il primo dei meriti è quello di riportare all’attenzione del pubblico Adolfo Rossi, uno dei maggiori giornalisti italiani, originario del Polesine, a cavaliere dei due secoli. Rossi, che appartiene ad una terra che di giornalisti, scrittori e politici illustri ne conta molti, soprattutto in quel periodo – da Balzan a Matteotti – fu prima di tutto un grande viaggiatore, e uno scrittore puntuale, preciso, mai rettorico o oleografico, ma di misurata prosa ed efficace argomentare. Nato povero, fu prima emigrato in America, poi giornalista, poi, dal 1902, ispettore del Commissariato Generale dell’Emigrazione, e quindi, dal 1908 fino alla morte, membro del corpo diplomatico italiano.

Purtroppo manca su di lui quella monografia che ci permetterebbe di cogliere a tutto tondo una figura che si mosse, inesausta, dagli USA all’America Latina, dall’Eritrea, colonia sabauda di recente acquisizione, alla Sicilia, colonia meno recente, da Costantinopoli a Madrid, al Sudafrica della guerra anglo-boera (e dell’emigrazione italiana); la sua bibliografia conta almeno trenta volumi, o lunghe relazioni (come quelle pubblicate qui, su Brasile, Stati Uniti, Sud Africa, e Argentina: Romanato ha escluso la relazione su Basilicata e Calabria del 1908, un peccato, perché avrebbe completato così il volume, che avrebbe contemplato tutte e 5 le relazioni ufficiali che Rossi pubblicò sul “Bollettino dell’Emigrazione” dal 1902 al 1914), oltre ad un numero altissimo di articoli pubblicati sui maggiori periodici italiani.

Rossi dunque affrontò il problema dell’emigrazione italiana soprattutto extra-europea, con dovizia di particolari, viaggiando coraggiosamente attraverso i luoghi più sperduti dove gli “italiani”, ovvero i siciliani, i veneti, i liguri, i campani, gli abruzzesi, i trentini, i friulani, cercavano di sopravvivere fuori da una patria ingrata, ma soprattutto, alla fine, inesistente.

Come spesso accade, quando si affronta il problema della migrazione italiana, pianificata come deportazione degli italiani in eccesso da figure criminali quali Nino Bixio ben prima che l’Italia divenisse un’entità politica (viaggiava perfino in Australia a tale scopo), Romanato tace, come del resto fa Rossi, sulle cause di tale fenomeno, immenso.

“Fatta l’Italia, occorre disfarsi degli italiani”, parafrasando l’esteta D’Azeglio, vacuo e razzista, non solo attraverso politiche destinate esplicitamente ad incoraggiare la migrazione – con relativa corruzione di Stato a livelli estremi, come accadeva soprattutto nella gestione dei mediatori e procuratori di carne umana – ma anche attraverso politiche di tassazione eccessiva ed esagerata, denunciate da molti ai tempi, che aveva ad esempio ridotto il Polesine di Rossi, di Matteotti, e di Romanato alla nascita (è del 1946), a quella miseria ignobile che mai aveva conosciuto sotto la Serenissima, probabilmente neppure ai tempi dei Romani, dei Veneti antichi, e financo degli Euganei. L’inizio della rapida decadenza del Polesine, del resto, risale agli anni Sessanta: prima le rinnovate ed esacerbate richieste del governo austriaco, che doveva finanziare la guerra con la Prussia, poi quelle, ininterrotte, cieche, violentissime, del governo italiano, a partire dal 1866, ovvero dall’annessione del Veneto e di Mantova (peraltro, anche di mantovani è pieno il Brasile di cui ci parla Rossi).

Fortuitamente, l’occupazione sabauda di Veneto, Emilia, Regno delle due Sicilie, Friuli e Lombardia, insieme ad una rivoluzione demografica tardiva (quella europea si era svolta tra metà e fine Settecento), venne subito dopo l’abolizione della schiavitù in tutto il continente americano. Ecco che gli “italiani”, insieme a numerose altre popolazioni di disgraziati, ovvero ridotti in disgrazia dai propri governi, in primis i cinesi, i coolies, meno resistenti però al lavoro duro rispetto a veneti, friulani, siciliani, vennero a sostituire gli schiavi, sotto l’apparenza della libertà. Di nuova schiavitù si tratta, in effetti, e se si leggono senza piangere queste pagine di Rossi, si vedrà come della vita in schiavitù gli “italiani” patissero tutti i disagi: violenza, abusi sessuali, fustigazioni, bastonature, malattie, privazioni, stenti. Ora, vero documento per un’antropologia coloniale, i testi di Rossi forniscono materia viva allo storico, sono testimonianze raccolte di prima mano, veritiere. Gli schiavi tricolore, più variopinti dei neri e dei gialli e degli indios messi insieme.

Anche il fatto che gli “italiani” dovunque tenessero i ritratti di Vittorio Emanuele III e della regina Elena (tra l’altro, Rossi era stato anche in Montenegro, pubblicando un resoconto interessante nel 1896), non deve sorprendere, non si tratta di “sindrome di Stoccolma” per gli esiliati dal regno sabaudo. Si tratta dell’umano desiderio di avere un sogno di patria, un’idea di patria, senza comprendere che tale patria, nel caso di specie, era la peggiore “patrigna”, anche se l’effetto che questa patetica ingenuità ci fa, è pari a quello di pensare a ebrei che avessero appeso nelle celle dei lager la foto di Hitler.

adolfo-rossiPerché occorre leggere Rossi? Perché rende perfettamente chiara la tragedia dell’emigrazione, per tutti, o quasi tutti (qualcuno riuscì a far fortuna), perché rende perfettamente chiare le motivazioni, e le condizioni miserrime di vita, di questa ondata di milioni di disperati che si riversavano fuori dai loro paesini, oggi spesso nomi a cui non corrispondente neanche più una casa. Dice a Rossi, in veneto, nel mezzo del Brasile, il colono trentino Beniamino Fontana: “chi ghe n’ha, sta mejo in Italia de qua” (p. 85), parole sacrosante applicabili ad ogni migrante: non si lascia la propria terra, nella maggior parte dei casi, se essa offre abbastanza per vivere bene, o perlomeno dignitosamente.

Rossi si indigna, a ragione, per i denari spesi nelle colonie africane, e per le sciagurate politiche coloniali; ma non si indigna abbastanza dinanzi ai suoi “connazionali”, ridotti in schiavitù. O meglio, colto da patriottica cecità, come lo storico Romanato (che chiama in ogni momento l’Italia “il nostro paese”, usando il pluralis maiestatis, perché mio, ad esempio, proprio non è, mia è la cultura italiana, la tradizione italiana, ma non l’aborto nato nel 1861), ed insieme senso vivo di pietà per quei tribolati, vorrebbe che il governo italiano spendesse di più per aiutarli in quei paesi lontani, insomma, un po’ come chiedere a Hitler di fornire le mense di Auschwitz con brioches, frittelle, galani e cioccolata calda. I migranti erano merci da export, influivano sulla bilancia commerciale e sull’equilibro diplomatico, valevano un tanto al chilo per il governo italiano, una volta esportati, non erano più interessanti, se già allora si fossero esportate FIAT avrebbe avuto maggior valore e qualche officina per le magnifiche vetture torinese sarebbe stata pur creata (stiamo parlando di Brasile, infatti…).

Ben venga dunque un libro di scritti di Rossi, ben venga, se qualcuno la scriverà, un’opera dedicata interamente a lui, figlio del Polesine asceso a giusta fama, viaggiatore attento anche ai minimi dettagli, e ai più remoti anfratti del mondo, senza mai cadere nella disgustosa retorica dei suoi equivalenti attuali. Ma non si ignorino le ragioni per cui quegli inferni qui descritti sono venuti al mondo, ché prima non c’erano, ché prima del 1861, o del 1866, l’emigrazione era assai limitata, ché prima ancora nel Nuovo Mondo ci andavano Lorenzo da Ponte o qualche nobile viaggiatore lombardo. Non ci andavano queste torme di disperati, affetti da ogni malattia, forse anche dalla nostalgia di una terra che era stata loro sottratta, nell’illusione di averli resi, di tale terra, cittadini a pieno titolo. Se il sogno di Cavour era la fine del latifondo, ecco che i contadini diventano proprietari di piccoli appezzamenti in Brasile, il sogno anti-nobiliare si frantuma sulla realtà di miseria che l’Italia unita crea, e sperimenta, da subito. Diventano proprietari dopo aver sudato sette, o piuttosto settemila camice. Contribuiscono, certo, a rendere ricchi paesi altri, ma a quale prezzo.

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