di GILBERTO ONETO*
La deprivazione culturale è per propria essenza una condizione soprattutto “percepita”, molto più difficile da quantificare e da rendere oggettiva di quella economica. Ciò non di meno è possibile per il caso padano trovare una abbondante quantità di concreti riferimenti: la deprivazione è così evidente da arrivare ad assumere rilevanza statistica.
Si può cominciare da uno dei settori più delicati e strategici: l’istruzione, soprattutto quella pubblica. Qui il marcatore più significativo è rappresentato dall’assoluta preponderanza nelle Regioni padano-alpine di insegnanti foresti. Mentre nel centro-sud quasi tutti i maestri e i professori hanno origini locali o provengono da comunità vicine, in Padania una cospicua (e crescente) porzione di “educatori” è costituita da foresti, cioè da gente proveniente dalle Regioni centro-meridionali. Secondo la Fondazione Agnelli nel 2008-09 il 19,8% degli insegnanti di ruolo nelle scuole padane è nativo del sud e la percentuale di meridionali si alza di molto nelle graduatorie per l’attribuzione dei posti: 44,4% in Lombardia, 42,5% in Emilia-Romagna, 35% in Piemonte e 31% in Veneto. Questo significa che il fenomeno è destinato a crescere vertiginosamente. Oltre a tutto la presenza di ultronei si infittisce ai gradi più alti, fra i presidi e il personale direttivo. Il significato di questi numeri è piuttosto chiaro: gli studenti padani (e con essi anche gli immigrati che frequentano le scuole settentrionali) vivono sempre più in una condizione di influenza foresta, sempre meno legata alla cultura e alla mentalità locale che vengono nel tempo erose e cancellate.
A questi si accompagnano i dati sulle percentuali di diplomati e laureati che sono superiori a sud: rispettivamente 79,1% e 24,0% dei giovani meridionali contro il 72,2% e 20,8% dei padani nel 2007. Queste statistiche sono simmetriche a quelle sull’analfabetismo (2,0% al Sud contro 0,5% in Padania nel 2005), sull’abbandono scolastico (14,52% contro 8,26% nel 2001) e con i risultati di tutte le inchieste sulla qualità dell’insegnamento e sull’effettivo livello di conoscenza degli studenti. Insomma, in Meridione ci sono più insegnanti (tutti indigeni), si spende di più per l’istruzione ma i risultati complessivi sono scarsi. In compenso si distribuiscono con maggiore generosità diplomi, lauree e bei voti.
Questo influisce ovviamente sui concorsi e infatti gli uffici pubblici sono pieni di meridionali. I padani sono di fatto esclusi da questo genere di impiego e non vale più da molto la spiegazione che essi disdegnino il “posto fisso” statale perché mal retribuito. Al contrario, più è appetibile socialmente ed economicamente un ruolo, meno padani si trovano. Essi sono praticamente assenti fra i prefetti (dal 2% al 5% di nati in Padania negli ultimi due decenni), fra i gran commis, i direttori dei ministeri e dai gradi più elevati dell’amministrazione anche periferica. I padani non esistono o quasi fra le forze dell’ordine e nelle forze armate che rappresentano – anche simbolicamente – la presenza dello Stato. In questo caso – in mancanza di notizie statistiche più precise – è sufficiente farsi un giro nei commissariati e nelle caserme. I settentrionali sono minoranza fra i magistrati, mosche bianche nei livelli più alti della gerarchia giudiziaria, Corte costituzionale compresa, ma lo sono anche fra i malfattori e i detenuti. Negli ultimi lustri la presenza di nati in Padania fra i galeotti non ha mai superato il 15%. Considerando anche la decisa preponderanza di avvocati di origine meridionale, si può dire che la giustizia sia un affare largamente estraneo alla padanità.
Non è diversa la solfa in politica: in Parlamento i padani sono sottorappresentati e nei governi la maggioranza di ministri e sottosegretari è quasi sistematicamente non padana. Insomma il potere statale è “italiano”, lo Stato è nato italiano ed è rimasto, anche nella gestione spiccia estraneo alla Padania.
Oltre a queste presenze colonizzatrici, la deprivazione culturale può essere letta anche nei mutati stili di vita imposti alla nostra gente, dagli orari all’alimentazione, al modo di parlare. Nelle televisioni c’è solo Meridione, sono meridionali i conduttori, gli attori, le comparse e le clacques. Sono meridionali le situazioni, hanno cadenze meridionali i doppiatori dei film stranieri. Sono meridionali le maggioranze delle redazioni dei giornali. Insomma la cultura padana ha spazi sempre più ridotti.
Un potente marcatore di questa colonizzazione è dato dalle lingue di uso corrente. Le parlate padane, ridotte allo sminuente rango di dialetti, sono state marginalizzate quando addirittura non proibite. Nel giro di un paio di generazioni esse saranno virtualmente estinte e con esse modi di dire, espressioni e tutto un bagaglio culturale costruito nei millenni. Le lingue locali padano-alpine sono state ridicolizzate, ridotte a macchietta, confinate nelle barzellette e nella più becera banalizzazione. Naturalmente non si è fatto lo stesso per quelle meridionali, diventate segno di popolanità, addirittura di cultura: chiunque può – ad esempio – andare in televisione a esibire napoletanità, mentre esprimersi in lingue settentrionali diventa scortesia o addirittura segno di inferiorità civile. Il romanesco è diventato normale lingua di comunicazione che può contaminare e deformare anche l’italiano-toscano senza che questo generi reazione.
In generale l’immagine del “paese Italia” è fortemente mediterranea in positivo e in negativo: tutti gli stereotipi che affliggono l’Italia all’estero sono meridionali, dalla pizza al mandolino, dagli spaghetti alla mafia. L’Italia è quella di “O-sole-mio” e dei “paisà” ed è forse anche giusto così, ma perché coinvolgere anche le comunità padano-alpine che c’entrano nulla. Esse sono schiacciate all’interno e negate all’estero.
La deprivazione culturale trova anche evidenti segni fisici e demografici. La città settentrionali sono sempre più sporche, rumorose e trasandate e meno europee: esistono sempre meno differenze percepibili ad esempio fra le periferie lombarde e quelle pugliesi, fra gli spazi pubblici veneti e quelli campani. Questo è il frutto di una italianizzazione strisciante e di interventi pianificati, oltre che di un vero è proprio processo di sostituzione etnografica. Tutti i regimi che si sono succeduti in 150 anni di unità hanno cercato di imporre linguaggi e stilemi architettonici sia con l’istruzione dei tecnici che con l’imposizione culturale più o meno occulta, ma anche con le leggi e gli interventi diretti: le costruzioni pubbliche e le grandi opere urbanistiche sono volutamente identiche proprio per formare e imporre un “genere” italiano e con esso condizionare il modo di vivere.
Ma l’italianizzazione è anche demografica: i padani sono sempre di meno e hanno tassi di riproduzione che sono i più bassi del mondo: è inevitabile che essi vengano lentamente soppiantati anche sul proprio territorio fino a diventare minoranza. È una “marcia verso la morte” e l’estinzione come comunità che può essere fermata e invertita solo con la riacquisizione della totalità del controllo politico del territorio e delle sue risorse.
Essa richiede la presa di coscienza del problema, che non a caso viene tenuto sottotraccia.
*Proponiamo una serie di interventi di “richiamo” dei principi dell’indipendentismo padano, giusto per non dimenticare mai perché esistiamo come comunità politica e per scongiurare strane derive che attardano l’indipendentismo, lo inquinano e lo trasformano in strani paciocchi. Si tratta di una serie di dieci “ripassi” che vengono contestualmente trasmessi anche su Radio Padania Libera il venerdì alle ore 17:00 e che sono accessibili anche in sonoro su YouTube…
Oneto era sempre “spot on” ! Grazie Leo, bello rileggerlo anche se, ahimè, purtroppo ci ricorda che quando una civiltà viene colonizzata può solo fare mea culpa e non certo prendersela con quella colonizzatrice. Speriamo di non dover fare lo stesso discorso nel 2030 quando, se non ci diamo rapidamente una svegliata, “non possederemo nulla e saremo felci” :))
Tristezza enorme, sì. Era un maestro per i leghisti e i leghisti han fatto l’esatto contrario.