La questione della partitocrazia e dei suoi discutibili comportamenti ha radici lontane nel tempo. Per esempio, Adriano Olivetti è un ingegnere, un imprenditore, un politico ed uno dei più eminenti federalisti contemporanei. Mentre in Europa imperversa la seconda guerra mondiale Olivetti, che è di origini ebraiche, si rifugia in Svizzera (1942-1945) dove completa la stesura del libro “L’ordine politico delle Comunità” in cui critica i partiti ed il parlamentarismo integrale italiano. Partendo dagli studi di Ferdinand Tönnies, giunge all’idea di “Comunità” come spazio naturale dell’uomo. I termini Comunità e Società indicano, per Olivetti, due modi diversi di concepire le associazioni di individui e generano due differenti tipi di rapporti sociali: “umani” e ”virtuali”.
Così egli supera l’idea della contrapposizione fra Comunità e Società di Tönnies e pone la prima come la nuova misura dell’ordine sociale (politico ed economico), fondata sul federalismo come punto di convergenza fra la Persona e il governo della Comunità locale e nazionale e fra la necessità della “dimensione limitata” della Comunità in rapporto alla grande babele della società moderna e delle sue metropoli. Questo assunto gli serve a dimostrare che non ci può essere Democrazia senza la base di esperienza umana ed affettiva dei rapporti interpersonali che è possibile alimentare e conservare solo a livello di una Comunità naturale, federale e di dimensioni limitate.
“L’Ordine politico delle Comunità” è l’opera teorica fondamentale di Olivetti nella proposta di riforma costituzionale dello Stato in senso comunitario, e la premessa della sua azione politica. Considerando lo scritto di Olivetti, conviene segnalare subito la sua struttura: si apre e si chiude con una esplicita discussione critica dei partiti. Questa struttura induce a concludere che proprio nei partiti egli vedesse l’insidia maggiore sulla strada del nuovo ordine politico da lui prefigurato.
Le critiche, al sistema dei partiti, peraltro, hanno radici lontane. Ruggero Bonghi aveva scritto nel 1868: «Non un impiego conferito senza raccomandazione di deputati, non una promozione, quasi, accordata senza vista dell’interesse politico […]; non un contratto stipulato dal governo senza che chi lo stipula fosse presentato da un deputato.» Parole che sembrano scritte oggi. Insomma una sfiducia profonda nei confronti dei partiti in quanto tali; quali che fossero le forme che via via hanno assunto.
Il discorso si amplia con gli esiti conclusivi del lavoro di Moshei Ostrogorski; sulla parte nella quale lo studioso russo condensava nello slogan «viva la lega, abbasso il partito», la propria opposizione a forme rigide e permanenti, a programmi-omnibus e, in fondo, a considerare il partito in quanto istituzione necessaria all’esplicarsi dello scontro politico. In sostituzione della forma-partito tradizionale, avrebbe auspicato la nascita di “Leghe” quali «organizzazioni single issue» [per singola questione], in grado di riunire i suoi aderenti su obiettivi specifici e destinate a sciogliersi una volta raggiunto lo scopo prefisso. Gli iscritti, secondo Ostrogorski, sarebbero così stati affrancati dall’esigenza di assicurare una fedeltà irrazionale ed eterna; sarebbe venuta meno l’oppressione di una struttura organizzativa votata alla conquista del potere, innanzitutto attraverso il ricorso alla corruzione ed al clientelismo.
E ancora, più recentemente, in un bel saggio Mariuccia Salvati sostiene: «in Italia la crisi della repubblica dei partiti lascia un vuoto che è sia istituzionale che costituzionale: l’ondata di antipolitica, populismo astensionismo che si inserisce in questo vuoto rischia di minacciare l’intero equilibrio democratico».
La risposta all’antipolitica ci porta nel cuore del tema del potere, e del rapporto tra democrazia e diritti. Olivetti è esplicito: «Nel nuovo Stato il potere poggerà saldamente non più su una forza sola, la democrazia, la quale è troppo facile preda della potenza del denaro. Il potere sarà ancorato alla cultura giuridicamente organizzata e, nel contempo, al lavoro sarà conferita una ben determinata potenza politica».
Di contro proprio l’esperienza recente ha messo in evidenza il problema di una democrazia che, per rimanere tale, ha bisogno di partiti che, invece, hanno progressivamente perduto la fiducia dei cittadini, sostituendola con l’uso spregiudicato e autoreferenziale del potere, trasformandosi in oligarchie, allontanandosi in questo modo dal modello partecipativo che, disegnato nell’articolo 49 della Costituzione del 1948, avrebbe dovuto promuovere partecipazione e iniziativa collettiva dei cittadini.
Di qui la necessità di un’analisi del predetto articolo 49: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.» Insomma i cittadini possono, ma non sono obbligati a riunirsi in partiti, e questi ultimi concorrono a determinare la politica. E se i partiti sono dei “concorrenti”, chi altri sono coloro che concorrono se non i cittadini che non si vogliono riconoscere o associarsi in partiti?
Questa lunga premessa per esprimere la nostra soddisfazione nel verificare che in questi ultimi tempi, in Veneto, ha preso il via un’iniziativa che è nel solco di quanto auspicava Moshei Ostrogorski, intorno al 1908; ovvero la costituzione di «un’organizzazione single issue» [per singola questione], quale quella del “Libro Bianco” sull’indipendenza del Veneto, che è tra i sottoscrittori del «Codice di condotta etica e di lealtà tra gli indipendentisti veneti», che qui ci piace allegare. Sempre dai responsabili del predetto “Libro Bianco” apprendiamo che presto inizieranno le pubblicazioni di quelle parti dello stesso, che allo stato dell’arte si considerano già definite.
Auspichiamo, dunque, non solo il proliferare di «organizzazioni single issue», ma anche che coloro che vorranno continuare ad organizzarsi in partito politico, ancor che indipendentista, assumano nel proprio comportamento interno e pubblico, le regole del predetto Codice di condotta etica e di lealtà.
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