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Indipendenza: ardua per legge, possibile politicamente (parte 1)

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veneti_consiglio_regionale2jpgdi ENZO TRENTIN

L’evoluzione del concetto di autodeterminazione dei popoli, mutuato dal Patto della Società delle Nazioni (28 Giugno 1919), premesso allo stesso Trattato di pace di Versailles, include un insieme eterogeneo di caratterizzazioni, il cui comune denominatore si identificherebbe, in realtà, nell’«affermazione della necessità che la volontà dei popoli assuma un valore determinante come uno degli strumenti per valutare la stessa legittimità delle situazioni politiche in atto, sia interne che internazionali (1)».

Secondo G. Guarino il principio di autodeterminazione sarebbe suscettibile di applicazione quando la volontà del popolo all’autodecisione soddisfa alcune condizioni, quali la possibilità di identificare il popolo attraverso il territorio che abita senza risalire necessariamente alla rispettiva unicità razziale o nazionale, la delimitazione territoriale non scaturisce dalla separazione fisica ed artificiale tra il territorio dello Stato che amministra e di quello amministrato, siano disponibili i diritti fondamentali dell’uomo, la volontà all’autodeterminazione non sia occasionale e di natura rivoluzionaria contro un determinato governo. Alla luce di tali circostanze, la Conferenza delle Nazioni Unite del 1993 ha confermato come referenti empirici del principio di autodeterminazione dei popoli tre categorie di destinatari, quali:

  1. i popoli soggetti a dominazione coloniale,
  2. i popoli soggetti a segregazione razziale,
  3. i popoli soggetti a dominazione straniera.

Se si escludono le prime due ipotesi in quanto ormai considerate estinte, attualmente si evince che il principio di autodeterminazione si applica ai popoli sottoposti ad un dominio straniero, che ha occupato con la forza determinati territori, come nel caso delle zone arabo-palestinesi, occupate da Israele dal 1967. Nella sua prima formulazione giuridica, il principio di autodeterminazione fu riconosciuto, dunque, solamente a quei popoli (intesi come comunità caratterizzate dall’appartenenza a etnia, lingua e cultura medesime), i quali, precedentemente assoggettati alla sovranità degli Imperi Colonialisti, divenivano finalmente liberi di decidere del proprio destino.

Questa impostazione tuttavia, più che interpretare l’idem sentire della comunità internazionale, sembrerebbe riflettere invece la peculiarità dell’approccio americano nella ricostruzione dell’ordine internazionale, secondo cui il principio di autodeterminazione dei popoli coinciderebbe con l’ideale democratico e il rispetto dei diritti dell’uomo (2).

Successivamente, accolto dalla prassi internazionale, il principio di autodeterminazione ha trovato consona collocazione in una serie progressiva di documenti convenzionali prodotti in seno all’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), in particolare da parte dell’Assemblea Generale, e ha ottenuto inoltre il suo fondamento giuridico nella stessa Carta di San Francisco del 25 Giugno 1945, sebbene il progetto originario risalente alla Conferenza di Dumberton Oaks dell’Agosto-Ottobre 1944 (3) non ne facesse alcuna menzione.

L’art. 1 par. 2 della Carta di San Francisco stabilisce che i fini delle Nazioni Unite sono: “sviluppare tra le Nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio… dell’autodecisione dei popoli”, che assolve dunque la triplice funzione di base indispensabile al mantenimento di relazioni amichevoli tra le nazioni, di garanzia della pace internazionale e stimolo alla cooperazione per la soluzione dei problemi economici e sociali (4). L’art. 55 poi più specificamente elenca le azioni che I’ONU intraprenderà “al fine di creare le condizioni di stabilità e di benessere… necessarie per avere rapporti pacifici ed amichevoli fra le Nazioni, basati sul rispetto del principio di… autodecisione dei popoli”.

Poiché il principio consuetudinario in tema di autodeterminazione mira a qualificare i destinatari, titolari del diritto, la presenza di alcuni requisiti di validità giuridica risulta necessaria per identificare se ad un popolo è consentito l’accesso all’autodeterminazione. Da questo punto di vista, appare necessaria anzitutto la constatazione di un fenomeno di carattere istituzionale, in base a cui una determinata categoria di popolo si presenta politicamente organizzata con la sussistenza di appropriate strutture politiche, come nel caso dei Movimenti di Liberazione Nazionale (5), tra cui si può citare a titolo esemplificativo l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), successivamente denominata Autorità Palestinese.

Più difficile può risultare, inoltre, l’individuazione della struttura politico-partitica legittimata a gestire il processo di autodeterminazione, quando vi sono più apparati di gestione con ruolo di guida, in quanto si pone il problema se tutti possono essere legittimi rappresentanti del popolo in vista dell’autodeterminazione, ipotesi che può essere ben accolta qualora in un movimento di liberazione nazionale sono insiti diversi obiettivi. Infine, attestata l’importanza del riconoscimento da parte della comunità internazionale del movimento di liberazione nazionale, quale atto unilaterale degli Stati, il movimento di liberazione si deve estinguere dopo aver raggiunto l’obiettivo, cioè l’autodecisione, in ottemperanza alla natura teleologica di tale diritto.

autodeterminazioneL’obbligo di rispettare il diritto dei popoli all’autodeterminazione, comunque, deve essere interpretato secondo una duplice sfaccettatura, riguardante da un lato lo Stato in cui serpeggia il movimento di liberazione, e dall’altro gli Stati esterni. Nel primo caso lo Stato che esercita la sovranità su un territorio multietnico sarà considerato ossequioso del principio di autodeterminazione, nella misura in cui assicurerà un’adeguata rappresentanza alle varie configurazioni sociali che esso sottende [ecco, dunque, sollevata la questione dell’effettiva efficacia di partiti politici – ancorché indipendentisti – che concorrono alle elezioni dello Stato dal quale ci si vuole scindere]. In questo senso, si comprende anche il legame che potrebbe intercorrere in linea di massima tra autodeterminazione e “democrazia”, sebbene tale correlazione possa risultare azzardata e fuorviante (6). L’autodeterminazione esprime, comunque, la possibilità da parte di un popolo di attribuirsi una forma di governo indipendente senza interferenze esterne, a prescindere da un’impronta democratica o autoritaria, nessuno Stato ha il potere di decidere quale sia la migliore forma di governo, una simile interpretazione potrebbe infatti scardinare il principio di sovrana uguaglianza che caratterizza le relazioni internazionali. Tuttavia, allo stato attuale appare difficile che un nuovo soggetto istituzionale, presentandosi al contesto internazionale, non si dichiari “democratico”.

Per quanto concerne il rilievo dell’obbligo di rispettare il principio di autodeterminazione da parte degli Stati esterni al governo che esercita la sovranità sul popolo in questione, la situazione diventa più delicata in riferimento all’operatività del divieto di ingerenza e del principio di non intervento nell’altrui sfera di sovranità territoriale (7).  Spesso, infatti, il diritto internazionale si è trovato incastrato tra due ipotesi contrastanti, relative rispettivamente all’intervento di Stati esterni, a sostegno del governo locale, i quali agiscono in ottemperanza al principio di integrità territoriale, e all’intervento di Stati che, supportando il movimento insurrezionale, legittimano il diritto all’autodeterminazione. In riferimento alla prima ipotesi «tutto dipenderà dalla questione di sapere se il consenso del governo – che dovrà risultare liberamente dato – sia o non essenzialmente conforme alle aspirazioni del popolo (8), data l’universalità del principio di autodeterminazione, tutti gli Stati infatti hanno l’obbligo di non ostacolare e promuovere i popoli nell’esercizio del diritto all’autodecisione.

Torneremo ancora sulle questioni giuridiche, che sono molto più ampie, per affrontare quelle che in ogni caso sono considerate le argomentazioni più valide per il riconoscimento di un  movimento di liberazione nazionale quale precondizione per il raggiungimento dell’indipendenza di un determinato popolo e territorio:

  1. Il movimento di liberazione nazionale dev’essere in grado di promuovere un asseto istituzionale credibile e preferibilmente democratico.
  2. Deve poter contare sul consenso di una rappresentanza popolare significativa, e non limitata all’aspetto etnico.
  3. Dovrebbe, conseguentemente, poter “rappresentare” le differenti componenti sociali, non necessariamente organizzate in forma partitica. E sui danni della partitocrazia abbiamo già scritto abbondantemente, per ritornarci anche in quest’occasione.

(segue 2)

* * *

NOTE:

  1. GUARINO G, “Autodeterminazione dei Popoli e Diritto Internazionale”. Napoli: Jovene Editore, 1984.
  2. Si veda sul punto, FREEMAN M., “National Self-Determination, Peace and Human Rights”.
  3. Le proposte della Conferenza di Dumberton Oaks che riunì i governi di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Cina, a fini interpretativi formano i “lavori preparatori” della successiva Carta delle Nazioni Unite. Si veda per tutti CONFORTI B., Le Nazioni Unite, 7a Padova: Cedam, 2005.
  4. GUARINO G., vedi sopra.
  5. Per ulteriori approfondimenti, cfr. anche GUARINO G., “Terrorismo e lotte di liberazione nazionale: la legge applicabile” in Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale. anno VIII – N°. 22 – Gennaio-Aprile, 2006.
  6. Per una nota critica sul punto cfr. in particolare FREEMAN M., vedi sopra: «Se i governi democratici non necessariamente rispettano i diritti umani, dei governi motivati precipuamente da sentimenti nazionalistici non sono necessariamente democratici e non necessariamente rispettano i diritti umani».
  7. Sulla nozione di “sovranità territoriale”, cfr. tra gli alti CONFORTI B., Diritto Internazionale. Napoli: Editoriale Scientifica, 2006.
  8. ARANGIO RUIZ G., “Autodeterminazione (diritto dei popoli alla)” in Enciclopedia Giuridica Treccani, 1988, vol. IV. L’autore critica la nozione di autodecisione, intesa sic et simpliciter come mera condanna del colonialismo, accezione che smentirebbe la portata universale dello stesso principio in questione, confermata dalle citate risoluzioni dell’Assemblea Generale ONU.

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