di ANTONIO DE FELIP*
Premessa
L’articolo pubblicato qualche tempo fa su questa rivista, titolato: “10.000 bambini rapiti per essere trasformati in terroristi islamici”, merita qualche ulteriore approfondimento e riflessione, anche per un doveroso atto di memoria e di continuità intellettuale nei confronti di Gilberto Oneto, che più e più volte trattò con chiarezza, competenza e determinazione il tema dell’Islam. E’ infatti sotto gli occhi di tutti l’attuale aggressività islamica che si esprime su più fronti, da quello militare, a quello terroristico,a quello propagandistico, a quello rappresentato dalla violenta invasione in corso, che non è fatta certo di “poveri profughi”, ma da consapevoli invasori che hanno come obiettivo la distruzione della civiltà europea e la sostituzione degli europei con una nuova popolazione.
Certo, una responsabilità non minore di quanto sta accadendo ricade su quelle oscure, ma neppure troppo, lobby mondialiste che hanno promosso e incentivato l’invasione (che tutto è tranne un fenomeno spontaneo) e hanno imposto una cultura “buonista”, immigrazionista e antirazzista ormai forzosamente condivisa da tutte le agenzie intellettuali, informative ed educative, una cultura spesso sostenuta da una ferocissima legislazione “anti-identitaria” che impedisce ogni libera espressione, tra l’altro, sui temi razziali e religiosi e che impone la resa culturale, politica, antropologica dell’Europa. Ma questo è un tema che, anche se ineludibile, dovrà essere necessariamente essere affrontato in un diverso testo.
Gli episodi in cui gli islamici schiavizzano popolazioni ritenute avversarie e inermi o parti di esse sono, nei recenti fatti bellici in Medio Oriente, in Africa, nel Caucaso, nell’Asia Centrale, sempre più frequenti. Questi atti di schiavismo si affiancano alle aggressioni, ai massacri che costituiscono il normale modus operandi delle milizie islamiche, di tutte le milizie islamiche, non solo di quelle dell’Isis o di Al-Qaeda, ma anche di quelle ritenute “moderate”, come ad esempio il soi-disant Esercito Libero Siriano.
A questi atti di schiavismo, l’Occidente, qualsiasi cosa questa ormai ambigua definizione voglia dire, non sa rispondere se non con l’oscuramento informativo, come normalità, ed eccezionalmente con un’educata e moderata indignazione. Minimo è stato il rilievo dato dalla stampa all’etnocidio di cristiani, yazidi, curdi, sciti, alawitiin Siria e in Iraq, la schiavizzazione di migliaia delle loro donne e ragazze, gli stupri e le violenze di massa. Al rapimento di duecento giovanissime studentesse cristiane in Nigeria ad opera di BokoHaram, alla loro forzata conversione, agli altrettanti forzati “matrimoni” con terroristi, l’Occidente – e la stessa Nigeria – non hanno saputo rispondere se non con la ridicola campagna “Bring Back OurGirls”, con palloncini colorati, striscioni e chiassose manifestazioni. Qualitativamente, la stessa reazione, mutatismutandis, avvenuta in Francia dopo le stragi di Charlie Hebdo e del Bataclan. Nessuna virile reazione militare, sociale, politica e giudiziaria che possa offendere l’Islam: i terroristi non sono islamici o, al massimo, sono “islamici che sbagliano”.
Eppure, basterebbe aver letto qualche sura del Corano o conoscere un poco, ma basta solo un poco, la storia, per sapere che l’uso della schiavitù è intrinseco, connaturato all’Islam, alla sua teologia politica, alla sua storia, alla sua prassi di sempre. L’Islam era ed è intrinsecamente schiavista, predatorio, non solo nei confronti delle popolazioni sottomesse o depredate, anche delle culture, dei saperi, dei talenti delle persone, quasi che dovesse “compensare” una propria, ontologica incapacità di produrre competenze e talenti depredando le altre popolazioni.
Nel 1999 Gilberto Oneto promosse ed editò un numero speciale de i Quaderni Padani (anno V, n. 22/23, marzo-giugno 1999) titolato Padania, Islam (il titolo rimandava a un convegno, sempre promosso dalla rivista, titolato: Europa Islam: 13 secoli di affronto)). Un volume di un centinaio di pagine, con una ventina di contributi diversi tra cui, ovviamente, quelli di Gilberto. Un testo ben fatto, illuminante sotto molti punto di vista, ben illustrato con cartine disegnate dalla fortunata mano del Nostro, preciso e sintetico, con un’apprezzabile e utile cronologia, riportante anche fatti storici spesso ignorati dalla storiografia ufficiale. Consentiteci una piccola digressione: c’è da augurarsi che la neo-costituita Associazione Gilberto Oneto voglia promuovere la revisione, l’aggiornamento e la ripubblicazione di questo bel testo, garantendone anche una distribuzione più ampia.
In questo volume, in uno dei suoi articoli, Oneto coglieva con chiarezza e precisione quanto la schiavitù, e più in generale la rapina e la predazione, fossero “connaturate” all’Islam. Così scriveva: “Per lunghi secoli, una larga porzione dei popoli musulmani ha avuto la sua maggiore industria e la sua più sicura fonte di reddito nella rapina e nel saccheggio delle navi e delle coste europee, nella sistematica predazione delle terre dei kâfirûnae nello sfruttamento del lavoro coatto di masse enormi di “infedeli” fatti prigionieri”. E ancora: “Durante il più che millenario svolgersi della “guerra santa”, milioni di persone sono state uccise o rese schiave costituendo il vero motore produttivo e la sola vera forza lavoro in società altrimenti poco propense al lavoro manuale e molto più portate al commercio ozioso e truffaldino del frutto delle fatiche di altri”.
Il mito del “lascito della cultura arabo-islamica”
E’ martellante, persino nelle accademie, la propaganda islamofila e arabofila nel sottolineare il luogo comune e la vulgata indiscutibile secondo cui “la cultura europea è debitrice di quanto ci ha trasmesso quella arabo-islamica”. Ora, è indubbio che ci siano stati scambi e influssi reciproci, soprattutto nei secoli che vanno dal IX al XII, ma il dogma de “l’apporto arabo-islamico” alla cultura europea va attentamente rivisto alla luce del fatto che, anche da un punto di vista culturale, l’Islam fu, in realtà, “predatorio” nei confronti delle culture sottomesse. Anzi, è lo stesso concetto di “cultura islamica” che, pur non potendo, oggettivamente, essere negato, dovrebbe essere tuttavia sottoposto a una severa revisione. Quando le tribù arabe sciamarono dalla penisola arabica aggredendo i vicini persiani (zoroastriani) e bizantini (cristiani), questi fanatizzati combattenti musulmani non erano portatori di nessuna cultura “alta”. Per decenni, se non secoli, i conquistatori musulmani rimasero una minoranza di oppressori incolti e dovettero, per governare e gestire gli immensi territori conquistati, affidarsi alle ben più civilizzate élite dei territori strappati ai bizantini o ai persiani. La fantomatica “grande civiltà arabo-musulmana” fu in realtà, almeno inizialmente, una creazione di amministratori, letterati, traduttori, medici, architetti, artigiani non musulmani che erano sopravvissuti agli iniziali e poi ricorrenti massacri ad opera degli invasori: “greci”, cioè bizantini, siriaci, persiani, copti.
Le tecniche di irrigazione e di giardinaggio furono copiate dai persiani, così come da questi vennero ereditate le competenze astrologiche e astronomiche. Dai bizantini, e quindi dai romani, si appropriarono delle tecniche costruttive. La cupola è pervenuta agli arabi come lascito bizantino. La medicina esercitata nei territori musulmani era quella siriaca e cristiana, erede diretta di quella greca di Ippocrate e di Galeno. I “numeri arabi” sono realtà indiani. Persino la scrittura araba, detta “cufica”, fu elaborata da missionari cristiani nel VI secolo. Ancora, una tenace vulgata continua a sostenere la – almeno in gran parte – falsa tesi della trasmissione della filosofia e del sapere dei greci all’Europa medioevale grazie alla “mediazione” della cultura araba. In realtà la presunta “oscurità” dei cosiddetti “secoli bui” (che ovviamente “bui” non furono mai, se non in una falsificante storiografia illuminista e anticristiana) non venne affatto “illuminata” dalla cultura araba. Il ruolo di pensatori come Avicenna (che, tra l’altro, era persiano e non arabo) e Averroè (anch’egli non arabo, ma berbero) è stato ampiamente sopravvalutato nella “riscoperta” europea della cultura greca nel medioevo. Un illuminante testo, abbastanza recente, lo dimostra inoppugnabilmente: Sylvain Gouguenheim, Aristotele contro Averroè, Rizzoli, Milano 2009. L’autore, medievialista della Scuola Normale Superiore di Lione, venne violentemente attaccato da buona parte dei suoi colleghi, evidentemente già in preda a quell’anelito di “sottomissione”islamofila così ben descritto da Houellebecq, per aver osato sostenere, in sintesi, che la cultura europea, anche dell’Alto Medioevo, non “dimenticò” affatto la cultura greca e la sua lingua: lo testimoniano intellettuali come Boezio, Cassiodoro, Isidoro di Siviglia, Paolo Diacono, Alcuino. In realtà, la traduzione dal greco in arabo di molti testi della filosofia greca (che vennero successivamente ritradotti in latino, soprattutto in ambiente ispanico) non fu opera di pensatori arabo-musulmani, ma dei monaci siriaci e furono queste le versioni utilizzate dai “filosofi” musulmani come Averroè. Il “razionalismo” della filosofia greca -soprattutto quella di Aristotele – e la sua visione di un Dio razionale, passatoalla Patristica cristiana e poi soprattutto alla Scolastica, che presuppone un Dio creatore di un mondo secondo ragione e quindi conoscibile, venne sempre rifiutato dalla teologia islamica, basata su una concezione di Dio puramente volontaristica e a-razionale. Da qui la possibilità di uno sviluppo scientifico nella cultura europea, impossibile invece in quella musulmana. Sia Averroè, sia Avicenna vennero condannati dalle autorità islamiche: in particolare le opere di Averroè vennero anatemizzate e date alle fiamme. Anche in questo senso Gouguenheim può parlare della “mancata ellenizzazione dell’Islam” e Francesco Borgonovo, nel suo bel testo L’Impero dell’Islam, Edizioni Bietti, Milano 2016, può citare l’intellettuale contemporaneo siriano Adonis che afferma: “Quelli che hanno edificato la cultura islamicae la civiltà araba non erano musulmani nel senso tradizionale del termine (…) Né Averroè, né Avicenna, né Rawandi erano veramente musulmani”.
Tornando all’Europa e al presunto ruolo della “cultura islamica” nella rinascita degli studi dei pensatori greci, c’è anche da considerare che la cultura ellenica continuò a circolare nell’Alto Medio Evo in Europa anche perché non vennero mai meno i contatti tra la cultura europea, anche pre-carolingia, e il mondo greco-bizantino-orientale: basti pensare alla serie quasi ininterrotta di papi greci e siriaci tra il 685 e il 752. Inoltre Gouguenheim, nel suo testo citato, ben illustra il ruolo dei monasteri europei, e in particolare quello di Mont-Saint-Michel, nelle traduzioni e divulgazioni dei testi greci nell’undicesimo e dodicesimo secolo. In particolare, tra i monaci traduttori si distinse tale Giacomo Veneto, probabilmente un monaco di origine veneziana acculturatosi a Costantinopoli. Come nota a margine concernente il testo di Gouguenheim, non possiamo evitare un rilievo non all’autore, ma all’editore Rizzoli che, alla ricerca della politicallycorrectness, non solo ha modificato in Aristotele contro Averroè il titolo originario del volume, Aristoteau Mont-Saint-Michel, ma ha persino aggiunto un sottotitolo: Come cristianesimo e Islam [così le minuscole e le maiuscole, n.d.r.] salvarono il pensiero greco che contraddice platealmente con quel “e Islam” il contenuto del testo. D’altronde, secondo una diffusissima leggenda, tra l’altro di origine araba, che lo storico Petacco definisce “semiveritiera” (Arrigo Petacco, L’ultima crociata, Mondadori, Milano 2007), il secondo califfo, Omar al Khattab, ordinò la distruzione della Biblioteca di Alessandria, la più grande dell’antichità, giustificandola dicendo che se quei libri erano conformi al contenuto del Corano erano inutili, se invece non erano conformi erano dannosi. In ogni caso, andavano distrutti.
Scrive Marco Respinti alla voce Civiltà islamica in Dizionario elementare di apologetica, Istituto di apologetica, Milano 2015: “Tutta la cultura percepita come “profana” (filosofia, arte, ingegneria civile, tecnologia, costumi militari), cioè basata sulle capacità di elaborazione creativa dell’uomo, è considerata blasfema e quindi condannata alla distruzione (…). Mentre nel cosiddetto Medioevo la Cristianità ha raggiunto rapidamente livelli di eccellenza in tutte le arti e i saperi, anche sviluppando il meglio dell’eredità culturale classica e gettando le basi di tutto ciò che nell’epoca moderna viene ritenuto progresso (…) la civiltà politica ispirata all’islam ha costretto i popoli conquistati al regresso e all’incuria.”
Da qui quella sopra accennata “incapacità” islamica di produrre saperi, competenze e talenti, incapacità che, sia pure con notevoli eccezioni, troviamo sia nella cultura araba che in quella successiva dell’Impero ottomano della Sublime Porta. Si è già detto, parlando dei vari califfati arabi, della necessità di questi di sfruttare le competenze dei popoli sottomessi, sia da un punto di vista amministrativo, sia da quello tecnologico, ingegneristico e medico. Questo gap tra le limitate competenze disponibili tra le popolazioni islamiche e le esigenze della gestione di realtà statuali complesse, conquistate e gestite con la violenza, fu presente anche nell’Impero ottomano, persino sotto il profilo militare.
Il pirata e ammiraglio ottomano Barbarossa, che assassinò, nelle sue scorrerie, decine di migliaia di abitanti delle coste italiane, francesi e spagnole e che ne ridusse in schiavitù altrettanti, era figlio di una donna greca vedova di un prete greco. Uluç Alì, comandante dell’ala sinistra dello schieramento navale turco a Lepanto, era in realtà un rinnegato calabrese di nome Giovan Dionigi Galeni. I grandi cannoni che consentirono agli ottomani la presa di Costantinopoli nel 1453 (e che “produsse” 60.000 nuovi schiavi cristiani per l’impero ottomano) erano stati progettati, realizzati e poi manovrati da fonditori e artiglieri ungheresi.Il corpo scelto dei giannizzeri era composto da bambini cristiani serbi, greci, bulgari, armeni, albanesi sottratti con la violenza alle famiglie d’origine, talvolta d’origine nobile, convertiti a forza e sottoposti a una durissima disciplina.Questa pratica era stata introdotta ancora nel XIV secolo: in un giorno stabilito, tutte le famiglie cristiane soggette a questo odiosissimo tributo dovevano radunarsi nelle piazze dei villaggi, dove i “reclutatori” musulmani sceglievano i figli più belli e robusti. Ancora nel tardo impero ottomano, la maggior parte dei dragomanni (segretari agli Esteri e interpreti) venivano reclutati tra i greci e gli albanesi e i romeni ellenizzati originari dal quartiere costantinopolitano di Fanar (i cosiddetti “Fanarioti”).
FINE PRIMA PARTE – Continua domani