Lo Stato italiano è come un pugile knock down, stordito e boccheggiante. I suoi cittadini, frastornati dall’assordante e distraente clamore dei mezzi di comunicazione di regime, sono pessimisti e sfiduciati ma non percependo il conteggio dei secondi da parte dell’arbitro, non afferrano appieno la gravità della situazione.
Sempre più si sente l’esigenza di un giornalismo più affidabile, cioè ancorato alla ricostruzione degli eventi. Un giornalismo che non sia superficiale o tanto meno fazioso, ma rispettoso della realtà dei fatti. Quasi sempre le cose non sono come appaiono, occorre scavare per capirle meglio. Per cui la distinzione tra fatti e opinioni è più che mai importante. È un discorso che abbiamo affrontato altre volte.
Dobbiamo constatare che in Italia abbiamo un vistoso deficit di autorevolezza che è dato proprio dagli organi d’informazione “schierati”. Giuseppe De Rita, sociologo e Presidente del Censis, afferma [VEDI QUI]: Ho paragonato l’edicola a una cabina elettorale, dove il cittadino-lettore esprime il suo voto scegliendo un giornale sulla base dello schieramento politico. È una situazione di barbarie informativa che ci ricorda l’ammonimento di Ugo Ojetti: «Vedi di non chiamare intelligenti solo quelli che la pensano come te!» Resta il problema dell’affidabilità delle fonti in un sistema in cui tutti gli autori presenti anche nel web non sono mossi da una deontologia professionale ma da un interesse di parte, per quanto nobile possa essere. Abbiamo un disperato bisogno di organi d’informazione ispirati ad etica ed autorevolezza. Imporre un fee per scaricare una risorsa può essere garanzia di migliore qualità.
Una vera trasformazione è dovuta alle tecnologie digitali. Trasformazione che vede 2 passaggi centrali: la crescita dei media e la tendenza che ha portato l’io-lettore-utente al centro del sistema, rendendolo in grado di soddisfare bisogni e aspettative. I dati ci illustrano la tendenza dei media digitali che si stanno progressivamente muovendo verso funzioni che vanno oltre quelle di comunicare e informarsi: circa il 38% degli utenti di internet utilizza il web non solo per comunicare e informarsi, cifra che sale al 50,8% tra i più giovani. Per effetto della complessità crescente della vita sociale, le istituzioni hanno cominciato a vivere in una dinamica tutta loro e ad esprimere quasi una estraneità dalla realtà quotidiana. È un mondo che non fornisce alcun serio servizio alla dimensione superiore (la politica) e quasi nessuno neanche alla società.
Il sociologo Ilvo Diamanti dell’Italia scrive [VEDI QUI]: un Paese spaesato. Senza riferimenti. Frustrato dai problemi economici, dall’inefficienza e dalla corruzione politica. Affaticato. E senza troppe illusioni nel futuro. La situazione è peggiorata. Tuttavia, c’è una novità: il senso di solitudine. Perché oggi, molto più che nel passato, anche recente, i cittadini si sentono “soli”. Di fronte allo Stato, alle istituzioni, alla politica. Ma anche nel lavoro. E nella stessa comunità.
Soli di fronte allo Stato. Valutato con fiducia dal 15% dei cittadini. Un livello basso, ma non molto diverso, ormai, rispetto agli altri governi territoriali. Perché meno del 20% dei cittadini si fida delle Regioni e meno del 30% dei Comuni. Insomma siamo un Paese senza Stato, secondo le tradizioni. Ma abbiamo perduto anche il territorio. Mentre l’Europa appare sempre più lontana, visto che poco più di un italiano su quattro crede nella UE.
D’altra parte, gli italiani si sentono sempre più lontani dalla politica. E, in primo luogo, dai partiti. Ormai non li stima davvero nessuno. Per la precisione, il 3%. Cioè, una quota pari al margine d’errore statistico. Poco meno del Parlamento, comunque (7%). Una conferma del clima di sfiducia che mette apertamente in discussione la “democrazia rappresentativa”. Interpretata, in primo luogo, proprio dai partiti, insieme al Parlamento.
Al di là dell’ampiezza, colpisce la “velocità” con cui sta crescendo la sfiducia verso i soggetti politici e le istituzioni di rappresentanza democratica. Il 50% degli italiani ritiene che “con i partiti non ci possa essere democrazia”. La sfiducia nel governo centrale e locale, la degenerazione della politica e dell’azione dei partiti, manifestata dagli scandali per corruzione non hanno rafforzato la credibilità della Magistratura. Che, fra i cittadini, ha subìto un pesante calo di fiducia. Dal 50%, nel 2010, al 33% oggi. La fiducia nelle organizzazioni di rappresentanza degli imprenditori e, ancor più, dei sindacati, è calata sensibilmente. E quasi 6 persone su 10 diffidano degli “altri”, in generale. In pochi anni, dunque, abbiamo perduto i principali riferimenti della vita pubblica e sociale. E abbiamo impoverito quel capitale di partecipazione e di fiducia necessario alla società, alle istituzioni e alla stessa economia per funzionare, non solo per svilupparsi. L’indagine di Demos sottolinea un rischio concreto. L’assuefazione alla sfiducia. Nelle istituzioni, negli altri, nel futuro.
In questo desolante quadro gli indipendentisti dovrebbero avere vita facile nel prospettare un nuovo assetto istituzionale per attrarre il consenso della comunità che vogliono autodeterminata. Invece cosa fanno? A) si organizzano il partiti o movimenti che sono poi la stessa cosa. B) concorrono alle elezioni dello Stato italiano in cerca di un’impossibile visibilità. C) si richiamano a improbabili similitudini con altri popoli in cerca di indipendenza come gli scozzesi o i catalani. Peggio: cercano un’improbabile leadership che fa a pugni con il concetto di democrazia e di autodeterminazione.
Scriveva Curzio Maltese in un articolo su “Repubblica” nel novembre del 2000: «Sulla storia patria si è abbattuto un revisionismo all’italiana, alimentato piuttosto da polemiche giornalistiche che da rigorose ricerche storiografiche, gonfiato di passioni e risentimenti piuttosto che sostenuto da documenti, sotto l’influsso di sbornie ideologiche uguali e contrarie a quelle della sinistra anni Settanta, che sovente hanno colto gli stessi, prima comunisti e ora ferocemente anti, ma sempre dove tira il vento.». Insomma c’è un’altra storia da rivisitare e raccontare.
Tra i vari indipendentismi della penisola italiana quello veneto sembrerebbe il più avvantaggiato se solo si facesse tesoro delle esperienze sin qui maturate, e si abbandonassero quei presunti leader che negli ultimi decenni non hanno fatto di meglio che litigare, delegittimarsi e combattersi vicendevolmente. Per non parlare di altre due o tre persone affette da inguaribile narcisismo.
C’è un lavoro costituente da svolgere, sia che si voglia riprendere le antiche istituzioni della «Serenissima» che, ovviamente, vanno aggiornate; sia che si desideri pensare e proporre una diversa architettura istituzionale. I costituzionalisti e gli studiosi che simpatizzano per l’indipendenza del Veneto non mancano. Manca, per così dire, un committente credibile. Anche sul piano storico e culturale non mancano le associazioni che simpatizzano e lavorano concretamente per la riscoperta e rivalutazione del patrimonio artistico-culturale. Ma anche qui manca, come già detto, un committente o coordinatore credibile.
A questo punto ci auguriamo che l’iniziativa dell’«Arengo Veneto», al quale possono partecipare tutti con eguale diritto di parola e di voto, ed i partecipanti del quale non credono nei partiti indipendentisti, autonomisti, federalisti, né credono tanto meno che un indipendentista debba andare a votare una qualsivoglia elezione politico-amministrativa italiana, prenda sempre maggiore consistenza ed autorevolezza.
L’Arengo si riunisce regolarmente l’ultimo venerdì di ogni mese. Dopo le prime assemblee spese per la reciproca conoscenza ed nell’individuazione di un modus operandi condiviso, questo organismo dovrebbe raggiungere presto l’influenza e la credibilità indispensabile per formulare proposte, fornire informazioni, coinvolgere la parte più sana dell’Intelligencija autoctona.