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Italia: gli unitaristi le provano tutte. indipendentisti, non cascate nei loro tranelli

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di GILBERTO ONETO

Giusto venti anni fa, nel 1994, un piccolo-grandissimo  editore come Scheiwiller pubblicava un breve saggio di unitaristiSergio Romano con un titolo piuttosto significativo “Finis Italiae. Declino e morte dell’ideologia risorgimentale”. Totalmente (allora) libero dalla preoccupazione di restare nei limiti del “politicamente corretto”, Romano esaminava con grande lucidità i meccanismi utilizzati dal “partito risorgimentale” per  “fare gli italiani” dopo aver fatto – nel modo brutale che tutti conoscono – lo Stato italiano. Diceva che fino alla metà del Novecento avevano operato due correnti principali. La prima, più pacifica, sosteneva che: «Occorre unificare il territorio e le istituzioni, promuovere l’educazione dei cittadini, creare fra essi i vincoli della convivenza economica e della comunità culturale».  Era il sodalizio della scuola dell’obbligo, dell’insegnamento di massa della lingua italiana, delle grandi operazioni che hanno portato all’invenzione di una letteratura nazionale, di una storia nazionale, del libro Cuore, della creazione di una “religione civile” di esaltazione dell’italianità.

La seconda corrente  è quella che: «pensa che gli italiani debbano farsi “col ferro e col fuoco”, nel vivo dell’azione, nel crogiolo delle guerre e delle battaglie». Vi appartenevano i fautori dell’idea di “nazione in armi”, di popolo militarizzato, di ritorno a un mitico passato di glorie guerresche. Se l’Italia è stata messa assieme nel Risorgimento con l’uso della forza, lo stesso deve essere fatto per evitare che l’unità si dissolva.

Dopo un iniziale frustrato tentativo di “fare gli italiani” con le idee,  hanno prevalso i fautori  del «siam pronti alla morte, l’Italia chiamò» e delle altre bellicose indicazioni di un noto refrain.  Ha chiarito a questo proposito lo stesso Romano che: «la riscrittura romantica della storia italiana può servire a puntellare le pretese della classe dirigente, ma non può sostituire la storia vera. Lo voglia o no l’Italia ha bisogno, per esistere, di guerre e di sangue». Vi hanno provveduto con generosità i Crispi con le guerre coloniali, i Bava Beccaris con le repressioni e gli stati d’assedio: la vera apoteosi del disegno si è avuta con la Grande Guerra dove – secondo la vulgata patriottica – gli italiani si sarebbero finalmente uniti nelle trincee, nel fragore della battaglia e nel silenzio dei cimiteri.

La più perfetta sintesi dei due “partiti risorgimentali” l’ha però effettuata il fascismo sintetizzandola nel “libro e moschetto”: gli italiani sono catechizzati sui valori patriottici fin dalla culla e vengono definitivamente temprati con la battaglia. Ma unire quel che in natura non può esserlo porta solo guai e la grande nazione “una e guerriera” ha dovuto affrontare la cruda realtà dell’Otto settembre del 1943.

A questo punto, il partito patriottico, che era stato monarchico e poi repubblichino, e ora repubblicano, non può più utilizzare i muscoli. Glielo vieta anche un articolo della Costituzione. Rispolvera una versione postmoderna  e nazional-popolare degli strumenti pacifici: la televisione, il Festival di Sanremo, la nazionale di calcio e roba del genere, che però non sono ancora sufficienti e si devono inventare altri strumenti per affrontare la “missione impossibile” dell’unificazione.

È lo stesso Sergio Romano che indica quale potrebbe essere un nuovo vinavil: l’unificazione europea. Il disegno è piuttosto semplice: ci si aggrega in una famiglia più grande che rende del tutto inutile il riconoscimento delle differenze interne. Ovvero: che senso ha dividersi quando ci deve unire con gli altri e serve essere coesi per difendere gli interessi comuni e “nazionali” nel nuovo grande sodalizio continentale? Il trucco non fa una piega e sembra anche funzionare: oggi nei maneggi per unificare l’Europa e anche nella repulsione per la sua insopportabile tirannia, si è formato un “partito della nazione” contrapposto nel bene o nel male alle follie di Bruxelles. Nel tranello sono cascati anche molti indipendentisti.

Ma non basta. C’è un quarto pestifero strumento: l’immigrazione. Prima è lo spostamento di grandi masse dal Meridione alla Padania nel tentativo di annacquarne l’identità e di creare un solo grande minestrone etnico nel quale affoghino tutte le differenze. Poi – di fronte al parziale fallimento dell’operazione (molti meridionali si sono padanizzati) – si importano masse impressionanti di poveracci da paesi sfigati o “birichini”. Si pensa che, di fronte a “diversi più diversi”, i popoli italiani dimentichino le proprie diversità, o che – davanti al pericolo dell’invasione foresta e di tutti i suoi corollari di violenza e depravazione – gli italiani si scoprano finalmente italiani.  Questo disegno cinico e criminale sembra dare qualche risultato patriottico se anche gli indipendentisti si riducono a parlare di “nostro paese” o invocare “prima gli italiani”.

Così oggi i popoli della penisola che vogliono difendere la propria specificità e ottenere libertà e indipendenza, si trovano a fronteggiare un partito unitarista che impiega i metodi del “convincimento nazional-popolare” (cucina mediterranea, Ferrari e paccottiglia varia), quelli collegati alla sfida europea (“tutti assieme – come nazione – siamo più forti e ci facciamo sentire”) e quelli dell’immigrazione interna (“siamo ormai tutti parenti”) ed esterna  (“la nuova, ineluttabile, società multiculturale non ammette localismi egoistici”). Dietro a queste tre torna anche a fare capolino l’opzione del “sangue e fuoco”: le spedizioni militari “umanitarie”, i marò, il “peace keeping”.

Insomma gli unitaristi le provano tutte. Serve conoscere e riconoscere tutti i loro trucchi per controbatterli. Principalmente non ci si deve cascare o – peggio – farne parte attiva.

 

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1 COMMENT

  1. Condivido, ma vorrei aggiungere qualcosa. Sergio Romano ha detto cose sensate ,ma si illude se pensava di annacquare l’Italia disunita nell”Europa; non é l’Europa giustamente il rimedio, anche se dobbiamo pensata ad una Europa diversa da quella di Bruxelles. Quelli hanno in mente l’ex Unione Sovietica, non una libera unione di popoli. Purtroppo abbiamo lasciato passare il 2011(il centocinquantenario) durante il quale siamo stati inondati e sommersi da tanta retorica, che ha celebrato la nostra massima disgrazia: l’unità d’Italia.

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