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Italia, il paese dei “quo vado”

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di MATTEO CORSINI

A fronte del probabile esodo di dipendenti pubblici per usufruire di “quota 100”, Francesco Verbaro affida al Sole 24Ore alcune riflessioni sulla (a suo dire) mancanza di appeal del posto pubblico.

  • “Sarebbe quindi utile interrogarsi sul malessere presente nelle Pa e sul perché, nell’era dell’active ageing e della necessità di avere una pensione adeguata in relazione all’aspettativa di vita, ci sarebbe un grande interesse a lasciare il posto pubblico, nonostante le penalizzazioni sull’assegno e sul divieto di cumulo. L’occasione è utile per capire se c’è un malessere nel pubblico impiego (sì), da cosa nasca e come superarlo. Il fatto che molti dipendenti manifestino l’intenzione di lasciare la Pa appena possibile, se può essere interessante dal punto di vista dei costi, può costituire un indicatore di cattiva organizzazione. Intendiamoci, raramente il pubblico impiego ci ha regalato scene di entusiasmo; ma storie di appartenenza e di fidelizzazione sì”.

Per esempio, il “deterioramento dei settori scolastico e sanitario è al contempo frutto e causa del malessere dei dipendenti. Ma è determinante la mancanza di una gestione delle risorse umane. La Pa, salvo rare eccezioni, è un contesto lavorativo demotivante. Si sceglie il settore pubblico per ovviare all’incertezza dei mercati del lavoro di oggi, ma una volta reclutati il rischio è di languire in organizzazioni piatte e vecchie.”

E via con altre doglianze:

  • “La formazione nella Pa è ridotta a poca cosa, e quella di ingresso è scomparsa; sempre meno si programmano corsi di formazione per facilitare l’inserimento e trasmettere conoscenze e valori “aziendali”. I percorsi di carriera sono poco trasparenti, lenti e premiano quasi sempre l’anzianità invece del merito e dell’innovazione. Profili professionali vecchi non favoriscono la specializzazione, l’identità e l’orgoglio professionale. La reputazione del settore pubblico è negativa. Raramente si troverà un dipendente orgoglioso nel dire “lavoro al comune o al ministero”. La Pa non attrae i migliori e non crea spirito di appartenenza. I livelli salariali sono poi più bassi rispetto al privato, in termini sia di retribuzione sia di benefit o welfare aziendale. Per chi viene assunto nella Pa c’è un rischio elevato di rimanere per anni nell’ufficio di ingresso, con scarse opportunità di crescita professionale prima ancora che di carriera”.

Verbaro non racconta nulla di inedito. Chi si iscrive a un concorso per entrare nella pubblica amministrazione dovrebbe sapere a cosa va incontro: uno stipendio sicuro, ancorché non stellare (fatta eccezione per certe posizioni nella tecnocrazia), e pressione sulla performance individuale tra lo scarso e l’assente. Ovviamente ogni medaglia ha il suo rovescio.

Ciò detto, resta pur sempre il fatto che ai concorsi pubblici si iscrivono in (decine o centinaia di) migliaia anche quando i posti a disposizione sono pochi. Evidentemente non deve essere poi così infernale il zaloniano “posto fisso”.

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