Il Trattato di Economia Politica di Jean-Baptiste Say (1767-1832) è stato uno dei più influenti testi d’economia nell’Europa continentale e negli Stati Uniti durante la prima metà del XIX secolo. Secondo Murray N. Rothbard quest’opera è superiore a La ricchezza delle nazioni di Adam Smith sia nella forma sia nel contenuto. La difesa del laissez-faire da parte di Say è più convinta e radicale di quella di Smith; il suo stile di scrittura è limpido e asciutto, senza le lunghe divagazioni del pensatore scozzese; gli argomenti sono ben ordinati in un sistema basato su produzione, distribuzione e consumo della ricchezza. Dal punto di vista teorico Say corregge alcuni errori di Smith e Ricardo, come la teoria del valore-lavoro, sostenendo che l’unica fonte del valore di un bene è la sua utilità, cioè la sua capacità di soddisfare un desiderio del consumatore.
Say ha anche il merito di aver reintrodotto nell’economia la figura dell’imprenditore, che Adam Smith aveva trascurato. Say lo riporta in vita e lo mette al centro della scena. La società intera, scrive Say, trae vantaggio dai successi imprenditoriali perché può beneficiare di nuovi prodotti oppure del miglioramento nella qualità o nel prezzo di quelli esistenti. Sono gli imprenditori che fanno ricco un paese: «Un paese ben fornito di intelligenti mercanti, industriali e commercianti dispone di mezzi più potenti per raggiungere la prosperità di un paese che si dedica principalmente alle arti e agli studi» (p. 82). Say esortava quindi le persone più talentuose a diventare imprenditori: «Non riesco a concepire un modo migliore di impegnare la ricchezza e il talento» (p. 84). Lui stesso fece seguire alle parole i fatti, fondando prima uno dei cotonifici più all’avanguardia di Francia e poi la prima scuola di economia e commercio del mondo.
La legge di Say
Il contributo scientifico all’economia per il quale Say è più noto è la “legge dei mercati”, chiamata talvolta “legge degli sbocchi”, che costituisce ancora oggi un caposaldo dell’economia classica. La legge di Say è stata volgarizzata dai suoi critici, come John Maynard Keynes, con una formulazione incompleta ed erronea: “ogni offerta crea la propria domanda”. In realtà è del tutto ovvio che non basta produrre una determinata merce perché si generi automaticamente una domanda per quella merce. Say diceva invece che nel suo insieme l’aumento della produzione aumenta la domanda. In altre parole, qualsiasi domanda può scaturire solo da precedente atto di produzione: «Un uomo che col suo lavoro crea qualcosa di utile non può aspettarsi di essere pagato per la sua attività se gli altri uomini non hanno i mezzi per acquistare i suoi prodotti. Ora, in cosa consistono questi mezzi? In prodotti di analogo valore, frutti dell’industria, del capitale o della terra. Questo ci porta a una conclusione che a prima vista può sembrare paradossale: è la produzione che crea una domanda di prodotti» (p. 133).
La legge di Say è una risposta alla teoria della sovrapproduzione, o del sottoconsumo, che viene proposta ad ogni crisi economica: vi è un eccesso di offerta di beni che non vengono acquistati, dunque deve intervenire lo Stato per stimolare il consumo. In realtà nel libero mercato la generale sovrapproduzione è un fenomeno temporaneo, perché l’abbassamento dei prezzi dei beni invenduti porta automaticamente alla correzione dello squilibrio. Inoltre, spiega Say, il surplus di una o più merci spesso significa che c’è stata una scarsità di produzione di altre merci con cui scambiarle. Il vero problema è sempre la carenza della produzione, non del consumo: «Per questa ragione un buon raccolto è favorevole non solo al contadino, ma anche ai venditori di tutte le altre merci. Più copiose sono le messi, maggiori sono gli acquisti dell’agricoltore. Cattivi raccolti, al contrario, riducono gli acquisti di tutti gli altri beni» (p. 135).
La legge di Say conduce quindi a questa piacevole conclusione: ogni individuo è interessato alla produttività e al benessere del prossimo, e ogni popolo alla produttività e al benessere degli altri popoli. Più i nostri vicini sono produttivi, più si aprono sbocchi per i nostri beni e servizi: «Un uomo di talento, che in uno stadio retrogrado della società si limiterebbe appena a vegetare, troverà migliaia di modi per mettere a frutto le sue capacità in una comunità prospera in grado di impiegare e remunerare i suoi talenti … Abbiamo sempre interesse all’altrui prosperità, quando siamo sicuri di poterne approfittare con il commercio» (p. 137-138).
Dato che l’azione del governo non è produttiva, la sua spesa non può mai aumentare la domanda di prodotti: «Una volta creato, un valore non aumenta se passa da una mano all’altra, neanche quando viene prelevato e speso dal governo anziché dal privato. L’uomo che vive sulla produzione altrui non origina nessuna domanda aggiuntiva di prodotti; semplicemente si sostituisce al produttore, con grave danno alla produzione» (p. 137). In altre parole, la spesa del governo o del funzionario pubblico si sostituisce a quella del produttore privato che è stato tassato; questo processo non solo non aumenta la domanda aggregata, ma la riduce a causa dell’effetto disincentivante sulla produzione. «Il mero incoraggiamento al consumo non è di nessun beneficio al commercio, dato che la difficoltà consiste nell’accrescere i mezzi per acquistare, non nello stimolare il desiderio di consumare. Abbiamo già visto che solo la produzione può fornire questi mezzi. Per questa ragione un buon governo cerca di stimolare la produzione, mentre un cattivo governo cerca di incoraggiare il consumo» (p. 139). Da una crisi economica, conclude Say, si esce solo con «la frugalità, l’intelligenza, l’attività e la libertà» (p. 140).
La tassazione è un male
La discussione di Say sulla tassazione e sulla spesa pubblica ha ricevuto poca attenzione dagli storici del pensiero economico, ma è di una brillantezza unica. Infatti, a differenza di tutti gli economisti precedenti, Say ha una visione sorprendentemente chiara della natura dello Stato e delle imposte. Egli non vede lo Stato come una benevola organizzazione quasi volontaria che fornisce servizi ai propri clienti in cambio delle tasse versate. La tassazione per Say è invece una imposizione coercitiva imposta al pubblico a vantaggio del governo. Il fatto che le imposte siano votate dal parlamento non le rende volontarie: «Che importanza ha il fatto che le tasse siano formalmente imposte con il consenso del popolo o dei suoi rappresentanti, se il potere dello Stato di fatto non lascia al popolo nessuna possibilità di rifiuto?» (p. 446).
Un’implacabile ostilità verso la tassazione pervade quindi tutta la sua opera. L’economista francese tende infatti a vedere nella tassazione l’origine di tutti i mali della società, comprese le recessioni economiche. Le tasse infatti danneggiano sempre la produzione, perché sottraggono agli individui delle risorse che avrebbero utilizzato in maniera differente: «La tassazione priva il produttore di un bene che avrebbe potuto destinare a una propria gratificazione personale, se consumato … o impiegato profittevolmente, se investito. Le risorse servono a produrre altre risorse, per cui la sottrazione di beni a chi li ha prodotti deve necessariamente diminuire, anziché aumentare, la capacità produttiva» (p. 447).
Del tutto assurda, quindi, è la tesi secondo cui un’alta tassazione stimola la produzione, perché costringe gli individui a lavorare di più per mantenere inalterato il proprio livello di vita. In questo modo, osserva sprezzante Say, è come se lo stato dicesse all’individuo: “Lavora di più, così ricevo più fondi per tiranneggiarti ulteriormente!”. La verità è che l’aumento del prelievo fiscale moltiplica le privazioni, ma non certo le soddisfazioni, di chi lavora.
L’eccessiva imposizione fiscale, per Say, è “una forma di suicidio nazionale” che comporta sempre degli effetti devastanti per la società: «La tassazione spinta all’estremo ha lo spiacevole effetto di impoverire l’individuo senza arricchire lo Stato» (p. 449). Anticipando l’idea della curva di Laffer, Say spiega che un governo che adotta una moderata politica fiscale vedrà aumentare le proprie entrate anno dopo anno: «Sotto la protezione e l’influenza di un governo giusto e regolare si verifica un progressivo accrescimento annuale dei profitti e delle rendite tassabili; senza bisogno di aumentare le aliquote questa imposizione diventa gradualmente più redditizia grazie alla semplice moltiplicazione dei prodotti tassabili» (p. 461).
La bassa tassazione è sinonimo di civiltà: «Quando il progresso della scienza politica limiterà la tassazione alla soddisfazione dei soli reali bisogni pubblici, i miglioramenti delle attività produttive innalzeranno verso le più alte vette la felicità umana. C’è il pericolo però che gli abusi e la complessità del sistema politico portino alla crescita e al consolidamento di una tassazione oppressiva e sproporzionata, che farà ripiombare nella barbarie quelle nazioni che oggi hanno raggiunto una strabiliante potenza produttiva» (p. 473).
I disastri della prodigalità pubblica
I fondi ottenuti con le imposte sono quindi estorti con la coercizione ai contribuenti, e spesi a uso e consumo del governo, per cui «la porzione di ricchezza che passa dalle mani del contribuente a quelle dell’esattore viene distrutta o annichilita». Senza le tasse, il contribuente avrebbe speso il proprio denaro per il proprio consumo; con le tasse «lo Stato riceve la soddisfazione risultante dal consumo di quel denaro» (p. 413). Lo Stato quindi offre benefici solo a se stesso e ai propri favoriti, e tutta la spesa statale è consumo a vantaggio dei politici e dei funzionari.
Say replica in maniera indignata a coloro che sostengono che le tasse non rappresentano un fardello per l’economia, perché “ritornano” alla comunità grazie alle spese del governo: «Questo è un errore madornale che ha generato un’infinità di guai, perché viene usato come pretesto per gli sprechi e le dilapidazioni più spudorate. Il contribuente cede un valore al governo senza ricevere in cambio nulla di equivalente. Il governo lo spende infatti per l’acquisto di servizi personali o di oggetti di consumo … Spendere è cosa ben diversa dal restituire» (p. 413). Say fa il paragone con un rapinatore che irrompe a mano armata in un emporio per impossessarsi dell’incasso, e alle proteste del commerciante gli dicesse di non preoccuparsi perché in futuro avrebbe speso quei soldi anche per acquistare le sue merci. Say commenta le parole impudenti del bandito facendo notare che «la spesa pubblica incoraggia l’economia in maniera assolutamente analoga» (p. 413).
Luigi XIV, ad esempio, era assolutamente convinto che la sua prodigalità fosse tanto benefica a se stesso quanto alla società, e per questo era alla continua ricerca dei modi più stravaganti di spendere il denaro che affluiva nelle casse del Tesoro. Le azioni commesse seguendo dei falsi principi, tuttavia, hanno conseguenze più fatali della cattiva condotta intenzionale, perché in esse si persevera a lungo senza rimorso e senza riserve. Se queste idee sbagliate sull’utilità della spesa pubblica rimanessero solo sui libri senza essere messe in pratica, continua Say, potremmo sorridere della loro assurdità. Il problema è che questi precetti «vengono messi in pratica dagli agenti dell’autorità pubblica, che possono imporre i loro errori e le loro assurdità sulla punta della baionetta o con la bocca del cannone» (p. 414-415).
Gli sperperi del governo, infatti, rovinano milioni di persone: «C’è più criminalità nella stravaganza e prodigalità pubblica che in quella privata, perché l’individuo spreca solo ciò che gli appartiene, mentre il governante non ha nulla di proprio da sperperare, essendo solo un mero amministratore fiduciario del tesoro pubblico … Se un individuo si convincesse che più spende più guadagna o che i suoi scialacqui sono una virtù … si ritroverebbe probabilmente rovinato, e il suo esempio avrebbe effetto su una cerchia molto piccola di suoi vicini. Un errore di questo tipo commesso dal governo provoca invece la rovina di milioni di persone, e si può concludere con il tracollo della nazione» (p. 414-418).
Say anarco-capitalista?
Le conclusioni dell’analisi di Say sono radicali: lo Stato è un “terribile disturbo pubblico” e un “aggressore della pace e della felicità della vita domestica”, per cui «il miglior schema finanziario pubblico è quello che prevede la minor spesa possibile, e la tassa migliore è sempre la più leggera» (p. 449). La tassa più bassa in assoluto però è zero, ragion per cui, come successivamente fecero notare gli anarchici individualisti americani Henry D. Thoreau e Benjamin R. Tucker, seguendo la logica di Say il miglior governo è quello che non tassa e non spende, cioè che non governa affatto.
Alcuni hanno visto quindi nella dottrina economica di Jean-Baptiste Say la prima espressione di anarco-capitalismo. In verità Say, almeno pubblicamente, non ha mai contestato la necessità di uno Stato, per quanto minimo. I passaggi in cui Say giudica inutile lo Stato persino nella protezione della proprietà sono contenuti in alcuni saggi pubblicati, forse per ragioni di prudenza, solo dopo la sua morte. Non sappiamo quindi fino a che punto fosse consapevole delle implicazioni anarchiche delle sue idee.
[Questo articolo è tratto dalla sintesi del Trattato di economia politica di Jean-Baptiste Say pubblicata su Trame d’oro – I grandi classici delle scienze sociali in pillole. Abbonatevi a Trame d’oro per leggere centinaia di libri fondamentali in forma condensata!]
Nota bibliografica.
Le pagine indicate nel testo si riferiscono all’edizione statunitense: Jean-Baptiste Say, A Treatise on Political Economy, Grigg & Elliot, Filadelfia, 1841. La prima edizione francese del Traité d’Économie Politique uscì nel 1803; successivamente ci furono sei edizioni ampliate, l’ultima del 1826. Esistono due traduzioni italiane: Giovanni-Battista Say, Trattato di economia politica, Stamperia del Ministero della Segreteria di Stato, Napoli, 1817; e G. B. Say, Trattato di economia politica, Pomba, Torino, 1854.