Uno dei bersagli preferiti dei sovranisti nostrani è l’eurocrate Marco Buti, dal 2008 alla guida della Direzione generale Economia e finanza della Commissione Ue e ora divenuto capo dello staff del neo commissario all’Economia, Paolo Gentiloni. A Buti è imputato di essere stato tra coloro che hanno operato per imporre ai Paesi periferici, Italia in primis, le politiche di austerità che avrebbero tarpato le ali a quel keynesismo alle vongole che, ci viene detto in continuazione, avrebbe fatto volare il Belpaese grazie a moltiplicatori della spesa pubblica stellari.
Austerità più presunta che vera, se si guardano i numeri di finanza pubblica; ma i numeri non sono l’ingrediente principale (sovente non lo sono affatto) alla base delle discussioni politiche a sud delle Alpi, salvo nell’accezione del dare i numeri.
Chi vede nell’Unione europea una costruzione socialisteggiante ha ovviamente motivi ben diversi per criticare l’eurocrazia, ma non è di questo che intendo occuparmi in questa sede. Piuttosto mi soffermerei sulla parte conclusiva di una recente conversazione che Buti ha avuto con Federico Fubini, pubblicata sul Corriere della Sera. Racconta Buti, riferendosi a Mario Draghi:
- “Nel 2014 condivisi con lui la lettera di Keynes a Roosevelt del dicembre 1933, che chiedeva con forza di sostenere la domanda. Mi piace pensare che la convergenza fra Keynes e Mario Draghi non sia del tutto accidentale”.
Credo che non lo sia affatto. Ci sono più probabilità che un musulmano diventi papa piuttosto che un non keynesiano diventi banchiere centrale. O anche eurocrate.
Per un libertario criticare Keynes è ormai come sparare sulla Crocerossa. La quale peraltro è ancora molto popolare anche presso coloro che dovrebbero essere gli alfieri del libero mercato (leggi Confindustria ed accoliti); e invece degradano a mendicanti di fallimentari investimenti “con i sodi degli altri”.