La fine dell’era liberale
Dopo i riconoscimenti ricevuti per il libro La rivoluzione del 1789, don Beniamino Di Martino ha confermato le sue notevoli doti di storico pubblicando, sempre con l’editore Leonardo Facco, uno studio su un altro avvenimento decisivo della storia contemporanea, La prima guerra mondiale come effetto dello “Stato totale”. L’interpretazione della Scuola Austriaca d’economia (120 pagine, € 10,00). La Grande Guerra ha rappresentato infatti il grande spartiacque, la grande cesura storica che ha interrotto bruscamente l’epoca del liberalismo classico (1776-1914) per aprire la nuova era dello Stato onnipotente, che a quanto pare non si è ancora conclusa con la caduta del comunismo e la fine del “secolo breve”.
“Il mondo di ieri” che aveva preceduto la guerra, ricordato con nostalgia da Stefan Zweig, poteva giustamente andare fiero delle proprie realizzazioni. In meno di un secolo e mezzo la rivoluzione industriale e la diffusione del capitalismo avevano trasformato il mondo oltre ogni immaginazione, generando un’espansione economica senza pari, un susseguirsi di scoperte e invenzioni, un notevole miglioramento degli standard di vita e una crescita esponenziale della popolazione umana.
Questo processo fu accompagnato, sul piano culturale, dalla diffusione delle idee liberali classiche basate sul non intervento del governo nell’economia, la libertà individuale, il libero scambio, il gold standard monetario. I progressi civili ed economici più stupefacenti si verificarono in Inghilterra e negli Stati Uniti, i due paesi più fedeli ai principi del laissez-faire. Queste due nazioni trainarono l’intero Occidente in una corsa verso traguardi sempre più ambiziosi, che sembrava non avere fine. All’inizio del 1914, al momento del suo apogeo, l’Occidente surclassava il resto del mondo sotto qualsiasi aspetto. Mai nella storia una civiltà aveva dimostrato una superiorità così schiacciante su tutte le altre.
Il suicidio di una civiltà
Chi poteva immaginare che, proprio nel momento del massimo trionfo, sarebbe arrivata la peggiore delle catastrofi? Chi poteva pensare che questa civiltà forte e sicura di sé si sarebbe lanciata a tutta velocità giù dal precipizio? Eppure, nell’agosto del 1914, l’irreparabile accadde. Per ragioni apparentemente futili che gli storici non sono ancora oggi riusciti a chiarire, i governi dell’epoca decisero di scatenare un conflitto suicida che in quasi cinque anni provocò infinite distruzioni morali e materiali, venti milioni di feriti, dieci milioni di morti, che salgono a sessantacinque milioni se si contano anche le vittime dell’influenza spagnola, che fu una conseguenza della guerra. Incalcolabile fu la distruzione del capitale umano, dato che la guerra spazzò via il fior fiore della società europea. Intere generazioni di giovani, i futuri protagonisti dell’industria, della scienza, dell’arte e della cultura, scomparvero prematuramente dalla faccia della terra.
E non finì qui. La Grande Guerra, fa notare Di Martino, non si concluse con i trattati di resa ma rappresentò solo il primo tempo di un terrificante Novecento. La guerra consentì l’avvento del bolscevismo in Russia e fu il fertilizzante per la presa del potere dei regimi fascisti in Italia e Germania. Dal vaso di Pandora della prima guerra mondiale scaturirono i demoni del totalitarismo, dei lager e dei gulag, dei genocidi, di una seconda guerra mondiale ancora più distruttiva della prima, conclusasi con un duplice bombardamento nucleare. Poteva il mondo andare peggio di così?
Le principali spiegazioni sulle cause della guerra
Eventi così drammatici richiedono spiegazioni adeguate, ma le tesi storiografiche più diffuse sulle cause della prima guerra mondiale lasciano sempre qualcosa di irrisolto. Non basta, ad esempio, dire che la guerra fu provocata dai nazionalismi. Anche nel corso dell’800, infatti, le idee nazionaliste erano diffuse e radicate, ma non avevano mai trovato gli strumenti per esplodere in maniera così distruttiva.
Ancor più deboli sembrano le tesi degli storici di estrazione marxista che spiegano lo scoppio della guerra con ragioni economiche. Negli anni che precedettero la prima guerra mondiale lo scrittore liberale inglese Norman Angell aveva dimostrato, nel libro La grande illusione, che l’interdipendenza economica fra le nazioni aveva raggiunto un tale livello di integrazione da rendere la guerra di conquista una completa assurdità. Entrando in guerra tutte le nazioni avrebbero segnato la propria rovina, indipendentemente dall’esito del conflitto. Il libro di Angell fu il più grande best-seller dell’epoca, fu tradotto il 25 lingue, vendette milioni di copie e venne ampiamente dibattuto. Le élite politiche e intellettuali ne conoscevano perfettamente le tesi. Malgrado ciò, non esitarono ad accendere la miccia dell’immane deflagrazione bellica.
Altri studiosi hanno rinunciato a dare una spiegazione razionale della Grande Guerra. Secondo lo storico inglese Niall Ferguson la prima guerra mondiale sarebbe scoppiata quasi per caso, per la concatenazione di una serie di sfortunate circostanze. Si trattò, a suo parere, di un errore di valutazione commesso dalle classi dirigenti europee del tempo: “il più grande errore della storia moderna” (La verità taciuta. La Prima guerra mondiale: il più grande errore della storia mondiale, 1998, p. 587).
La guerra come effetto dello Stato totale
Una spiegazione molto più convincente si trova invece nelle opere degli esponenti della Scuola Austriaca di economia. Attraverso l’indagine economica, scrive Di Martino, la Scuola Austriaca ha prodotto una vera e propria interpretazione filosofica generale della storia contemporanea, e in particolare di quell’immane sciagura bellica. Studiosi del calibro di Carl Menger, Ludwig von Mises, Friedrich A. von Hayek, Murray N. Rothbard, Ralph Raico o Hans-Hermann Hoppe, infatti, hanno offerto una lettura autenticamente liberale delle cause e delle conseguenze della Grande Guerra.
A partire dagli ultimi decenni del XIX secolo, ricordano gli autori “austriaci”, si verifica un preoccupante cambiamento del clima culturale generale. I principi del liberalismo classico vengono progressivamente rifiutati in favore delle idee collettiviste, socialiste, protezioniste, militariste, imperialiste. La glorificazione della potenza statale e la critica all’individualismo “borghese” sono i tratti caratteristici di questo nuovo spirito del tempo, e all’inizio del nuovo secolo la maggioranza dei politici e degli intellettuali invoca la guerra come mezzo di edificazione dello Stato totale. Il socialismo di Stato, scrive Mises, era l’ideale sociale dell’età che ha preparato la guerra mondiale.
Se accogliamo questa spiegazione, la storia del XX secolo non appare più una successione di eventi inspiegabili o irrazionali. Lo scoppio della prima guerra mondiale non fu un’improvvisa esplosione di follia collettiva, ma la conseguenza logica, addirittura inevitabile, delle idee statolatriche coltivate assiduamente dalla società europea per decenni. Se anche lo studente serbo Gavrilo Princip avesse mancato il colpo di pistola contro l’arciduca Francesco Ferdinando, con molta probabilità la guerra sarebbe prima o poi scoppiata lo stesso, perché le idee dominanti dell’epoca convergevano verso lo Stato totale e la guerra totale.
Il ruolo negativo dell’Italia e della Germania
Se l’interpretazione “austriaca” è corretta, viene da chiedersi: perché l’Occidente ad un certo punto rifiutò l’individualismo liberale in favore del collettivismo statalista? Perché voltò le spalle ai più elevati principi della civiltà per abbracciare un nuovo sistema di valori che idolatrava la coercizione e la violenza? Le nuove idee hanno sempre bisogno di un riferimento concreto per diffondersi. Possiamo quindi azzardare questa ipotesi: così come l’Inghilterra e gli Stati Uniti rappresentarono i modelli dell’epoca liberale, l’Italia e la Germania furono gli esempi che ispirarono l’avvento dell’era dello Stato onnipotente. Nel 1870, l’anno della conquista di Roma e della proclamazione del Reich tedesco, questi due paesi portarono a termine la propria unificazione territoriale. Sorsero così due nuovi stati centralizzati, militaristi e aggressivi, che sconvolsero il panorama politico dell’Europa della Restaurazione.
Italia e Germania inaugurarono un nuovo trend nella cultura europea, molto diverso dal precedente. Il Risorgimento italiano eccitò i sentimenti nazionalisti in tutto il vecchio continente, suscitando analoghi desideri di centralizzazione nazionale nel mondo tedesco (pangermanesimo) e nel mondo slavo (panslavismo). Anche il Reich tedesco fondato da Bismarck, uno Stato sovrano nel vero senso della parola, potente e ambizioso come non si vedeva dai tempi della Francia di Luigi XIV o di Napoleone, divenne il modello verso cui guardare. Dopo la vittoria di Sedan contro i francesi nel 1870, tutto il mondo cominciò a guardare con ammirazione l’esercito prussiano.
Anche le politiche sociali ed economiche di Bismarck divennero oggetto di imitazione. Il cancelliere tedesco fondò un sistema pensionistico pubblico, primo esempio di stato sociale; istituì numerosi dazi; cartellizzò le industrie tedesche. Il sostegno accademico a questo programma statalista venne fornito da un gruppo di economisti appartenenti alla scuola storica tedesca, i cosiddetti “socialisti della cattedra” come Adolf Wagner e Gustav Schmoller, contro i quali Carl Menger e gli economisti austriaci condussero una dura polemica. Queste nuove idee “tedesche” si diffusero negli anni ’80 anche in Inghilterra, dove furono accolte dai socialisti fabiani come Bernard Shaw e H. G. Wells.
Ecco come Hayek descrive, nel libro La via della schiavitù, il modo con cui il socialismo tedesco spodestò il liberalismo inglese: «Per oltre duecento anni le idee inglesi sono andate diffondendosi in direzione dell’Oriente. Il regno della libertà che era stato conseguito in Inghilterra sembrava destinato a diffondersi attraverso tutto il mondo. Il dominio di queste idee ha probabilmente raggiunto la sua maggior diffusione intorno al 1870. Da allora cominciò a regredire, e un differente sistema di idee, in realtà non nuove ma vecchissime, cominciò ad avanzare dall’Oriente. L’Inghilterra perdette la sua leadership intellettuale nella sfera politica e sociale, e divenne un paese importatore di idee. Per i sessant’anni successivi la Germania diventò il centro dal quale si irradiarono, verso l’Oriente e verso l’Occidente, le idee destinate a governare il mondo del ventesimo secolo. Queste idee erano quelle di Hegel e di Marx, di List o Schmoller, di Sombart o Mannheim, ora quelle del socialismo nella sua forma più radicale, o quelle concernenti semplicemente una “organizzazione” o una “pianificazione” meno radicale. Le idee tedesche venivano importate dovunque con grande rapidità e le istituzioni tedesche imitate».
Una catastrofe culturale
Secondo l’interpretazione “austriaca” della storia recente, messa in luce con maestria da Beniamino Di Martino, la prima guerra mondiale fu il logico risultato delle idee stataliste che avevano contagiato non solo le élite ma anche le masse popolari. Un’immane catastrofe era inevitabile perché la cultura europea e americana, affascinata dallo Stato totale, era già da tempo malata.
Se tutte le nazioni e i loro leader avessero avuto in mente in maniera chiara ed esclusiva i propri interessi economici, osservò nel 1946 l’economista Wilhelm Roepke, la prima guerra mondiale – e la seconda, che della prima fu solo una continuazione ancor peggiore – non sarebbe mai scoppiata. Mai come allora fu evidente che l’interesse e il benessere di un grandissimo numero di esseri umani dipendeva dalla preservazione della pace. Il fatto che la guerra scoppiò lo stesso dimostra, senza ombra di dubbio, che le fondamenta morali e culturali della società europea erano già crollate nel più completo e disastroso disordine.
“La prima guerra mondiale come effetto dello “Stato totale””
pare non sia più disponibile, il collegamento non è valido e manco cercando altrove, e il sito storialibera è inceppato e quello di Di Martino non esite (più)
Grazie per la segnalazione, non c’è più il link perchè il libro è fuori catalogo