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La “lotta alla disinformazione” è più pericolosa della “disinformazione”

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di PIETRO AGRIESTI

Quando il New York Post fece uscire l’inchiesta su Hunter Biden a due settimane dalle elezioni americane, Biden e Trump erano nei sondaggi molto vicini. Immagino il panico dei Dem nel vedersi scoppiare un simile scandalo in faccia all’ultimo minuto.

Ma poi ecco la svolta. 50 importanti ex membri dell’intelligence scrivono una lettera in cui affermano “non abbiamo alcuna prova, ma riconosciamo sulla base della nostra esperienza che vi sono tutti i segni di una operazione di disinformazione russa”. La lettera è firmata da figure di primo piano, tra cui cinque ex capi o capi ad interim dell’Agenzia: Morell, John Brennan, Leon Panetta, Michael Hayden e John McLaughlin. È il Russiagate un’altra volta? I russi stanno aiutando Trump? Visti i precedenti il tutto appare più credibile.

La credibilità della lettera si basa su quanto accaduto con la campagna elettorale precedente. Twitter decide di agire e blocca l’account del New York Post. Una mossa inaudita bloccare un giornale in questo modo. Di fronte all’uscita di una inchiesta importante, sotto elezioni, Twitter si prende la responsabilità di interferire nel processo democratico. La giustificazione è che si tratterebbe di evitare l’interferenza dei russi, ma non ci sono prove concrete in proposito solo la lettera dei 50 ex intelligence. Non solo blocca l’account del giornale – che resterà bloccato parecchi giorni – ma impedisce la condivisione dell’articolo, persino nei messaggi diretti.

Con il primo thread dei Twitter Files abbiamo avuto modo di conoscere almeno in parte la discussione interna a Twitter intorno alla decisione. Alla fine, decisero di agire così, forzando le loro stesse politiche di moderazione. Il che dimostra che queste politiche, che utenti e clienti sottoscrivono, non sono però considerate da queste piattaforme come un impegno reciproco fra le parti, un accordo al cui rispetto sono tenute anche loro, ma come una mera decisione unilaterale che può essere modificata al volo. Ma non solo Twitter reagisce così alla lettera.

Facebook decide anch’esso di intervenire limitando la visibilità dell’inchiesta, che resta condivisibile sulla piattaforma, ma viene penalizzata dall’algoritmo. E non solo: i principali media liberal progressisti, compreso il New York Times, cioè il più importante quotidiano al mondo, e in particolare la MNBC, che quanto a faziosità è peggio della Fox, trasformano la lettera in una certezza. Non abbiamo le prove ma riconosciamo una operazione russa quando la vediamo, diventa in una infinità di articoli e servizi TV una certezza assoluta: l’inchiesta è un’operazione russa.

Anche Nina Jankovicz, che Joe Biden voleva insediare come dirigente del suo Anti Disinformation Board, sostenne questa tesi. Tanto per ricordare che quando venne proposta a direttrice di quel Board e subissata di critiche, queste forse non furono tanto dovute al sessismo come disse lei, ma alla sua inadeguatezza al ruolo. Oggi sappiamo con certezza che il laptop e le mail erano autentici. E che quindi la disinformazione l’ha fatta chi li ha definiti altrimenti, senza per altro alcuna prova concreta. Sulla parola di 50 agenti dell’intelligence, che ricordiamolo non ha certo un record di trasparenza, sincerità, e onestà nelle sue comunicazioni, e il cui lavoro consiste nello spionaggio e nel controspionaggio, ed è fatto di segreti, complotti, depistaggi, etc…

La credibilità dell’intelligence in materia avrebbe già dovuto essere stata compromessa dal Russiagate tra l’altro, con il Dossier Steele. Fonte di tante delle storie che fecero scrivere titoloni su Trump uomo del Cremlino, Trump ricattato da Putin con il video di una prostituta, etc.. si è poi rivelato falso, insieme praticamente all’intero Russiagate. Dunque a ben vedere la lettera non avrebbe dovuto guadagnare di credibilità visti i precedenti, ma perderne. Ma siccome gran parte delle fake news del Russiagate sono ancora credute o spacciate per vere, ecco che nonostante tutto, il Russiagate può ancora costituire una base su cui costruire efficacemente nuove storie di paura sui russi, nuove fake news e campagne di disinformazione.

All’epoca ci fu chi lo vide e denunciò subito tutto questo. Glenn Greenwald si dimise da The Intercept perché non gli permettevano di pubblicare liberamente sullo scandalo Hunter Biden. Glenn, premio Pulitzer con il Guardian per la copertura della storia di Snowden, uno dei cofondatori di The Intercept, fondato proprio per essere casa del giornalismo indipendente che le grandi media corporations fanno fatica ad ospitare, si dimise e passó in proprio su Substack, facendo contemporaneamente causa al giornale, sostenendo che The Intercept stesse violando il suo contratto, che gli avrebbe garantito ampia libertà di pubblicazione. La verità è che nell’immediato ci potevano essere mille dubbi su mille aspetti di questa inchiesta e sull’origine dei documenti del laptop. Si sarebbe potuto semplicemente permettere a tutti di dire tutto. Ciascuno avrebbe potuto esprimere la sua convinzione: l’inchiesta non rivela niente di che? l’inchiesta rivela uno scandalo incredibile? I documenti sembrano autentici? I documenti sono di dubbia origine?

Ciascuno avrebbe potuto sostenere e argomentare liberamente. Ma si scelse di censurare il dibattito. Gettando un’ombra sullo svolgimento delle elezioni e il loro risultato. Con scelte come questa è ipocrita lamentarsi se i cittadini avvertono che il dibattito pubblico e il processo elettorale non si svolgono in modo affidabile: è vero. Ma ora viene fuori il sospetto, da provare per carità, che la lettera sia stata orchestrata dai Dem. Quindi un candidato presidente con il suo partito e la sua campagna elettorale avrebbe messo in piedi un gigantesco depistaggio, una campagna di disinformazione, anche ben riuscita, con il coinvolgimento dei grandi social, dei grandi media e dell’intelligence, comprese figure apicali dell’intelligence. Se l’inchiesta su Hunter Biden denunciava uno scandalo in sé e la sua censura era uno scandalo anche maggiore, qui la cosa diventa ancora più enorme.

La memoria va a un celebre articolo del Time “The secret history of the Shadow campaign that saved the 2020 election”, dove si descriveva un’alleanza per salvare la democrazia da Trump, tra Dem, social, media, sindacati, repubblicani Never Trump, etc.. e forse la vicenda dello scandalo Hunter Biden è una illustrazione pratica di come questa alleanza abbia funzionato. Certo è che evidentemente non sono i troll russi il problema della democrazia americana. E alla luce di tutto questo l’atteggiamento di quei media che hanno ignorato o liquidato vuoi lo scandalo Hunter Biden, vuoi le inchieste di questi anni di giornalisti come Greenwald e Taibbi, vuoi i Twitter Files, etc… è chiaramente irricevibile. Ma immaginiamo anche cosa accadrebbe se vi fosse in piedi un sistema di “lotta alla disinformazione” come quello che in parte è in piedi, e che l’Europa sta ulteriormente costruendo, istituzionalizzato, reso obbligatorio per legge, corredato di sanzioni per chi non ottempera agli obblighi. Anche nella versione non complottista della storia, nel momento in cui un tale sistema prendesse una cantonata, venisse strumentalizzato, fosse corrotto, etc… e scattasse a sostegno di una storia falsa, come che l’inchiesta su Hunter Biden sia opera dei russi, cosa accadrebbe?

Un sistema del genere non rappresenta una difesa della democrazia, ma un suo hackeraggio, e non è una soluzione alla polarizzazione o alla mancanza di fiducia nelle istituzioni o nei media mainstream, è la definitiva certificazione che non bisogna fidarsene. Esiste ovviamente una reazione.

Esistono giornalisti come Greenwald e Taibbi e quelli del New York Post che hanno fatto uscire tutto questo, e tanti altri. A onor del vero molti sono giornalisti che si considererebbero liberal, anche se vengono bollati come estremisti di destra dai liberal odierni. Esistono Substack e Rumble che hanno dato loro modo di pubblicare. Esistono tanti media che danno queste notizie. E non esiste al giorno d’oggi la possibilità di un sistema di censura veramente efficace.

Tuttavia abbiamo bisogno che su questioni come queste le parti si invertono e che diventi mainstream l’idea che la odierna “lotta alla disinformazione” è essa stessa più pericolosa di quello che dovrebbe combattere, è incompatibile con la democrazia e con la libertà, rappresenta una involuzione dei nostri sistemi istituzionali, porterà a maggiore sfiducia, polarizzazione e a maggiori tensioni sociali, favorirà la circolazione di più e non meno fake news, perché renderà impossibile trovare fonti affidabili e getterà un dubbio su tutto, darà vita, o sta già dando vita, a un sistema corporativo fascistoide, e va rifiutata senza se e senza ma quale che sia la questione agitata per giustificarla: dai troll russi, ai novax, alla lotta al terrorismo, alla paura della Cina, al bullismo, al razzismo, alla pedo pornografia, a qualsiasi altra cosa.

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