Sui temi etici, e non solo quelli, l’indipendentismo veneto arranca, temporeggia, svicola. Qualche ingenuo ben pensante pretenderebbe che il millenario bagaglio di buon governo della Serenissima Repubblica di Venezia, e l’appartenenza al Venetorum populus sia titolo sufficiente per il corretto esercizio dell’autodeterminazione e dei diritti dei suoi cittadini.
Quasi che il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, l’assessore regionale alle Infrastrutture Renato Chisso, e l’ex governatore del Veneto Giancarlo Galan (tutti condannati dalla magistratura) non fossero veneti; oppure – per farla breve – che gli scandali del MOSE e di alcune opere realizzate in project financing provenissero dalla luna.
Inaugurando il nuovo ospedale unico dell’Alto Vicentino a Santorso, il presidente della Regione Veneto, il leghista Luca Zaia, aveva sentenziato sferzante: «chi critica e basta è solo un cialtrone». [VEDI QUI] E il 18 luglio 2015, Stefano Fracasso, consigliere regionale che ha sempre seguito con attenzione le vicende della sanità vicentina e in particolare del polo ospedaliero di Santorso, commenta al “Giornale di Vicenza” la decisione del governatore del Veneto Luca Zaia di revisionare i contratti di project financing. [VEDI QUI]
Da cosa dipende, poi, il protagonismo della magistratura? Potremmo osservare che la tutela dei diritti costituisce lo specifico mestiere di ogni magistrato; però altro è tutelarli, altro è crearli dal nulla come Giove. E su questo non ci soffermeremo, giacché altri e più autorevoli di noi hanno in proposito commentato. Si veda qui: «Il treno giudiziario dei diritti» [VEDI QUI] Il costituzionalista Michele Ainis sostiene che «l’interventismo dei giudici italiani deriva dall’assenteismo dei politici italiani, dall’horror vacui che regola la vita delle istituzioni.» e se condividiamo questo giudizio, su quali istituzioni il futuro Veneto indipendente poggerà?
La politica è assente. La società italiana soffre d’una mancanza di tutele sui temi della vita e della morte, della sessualità, della protezione dei più deboli. I giudici lo sanno, i politici – compresi certi indipendentisti veneti – evidentemente no. C’è un’idea ricorrente: la politica è affare da specialisti da “aristocratici”. L’aristocrazia, dal greco àristos, “Migliore” e cràtos, “Potere”, è una forma di governo nella quale poche persone, che secondo l’etimologia greca del termine dovrebbero essere i “migliori”, controllano interamente lo Stato. Nella storia della Repubblica italiana, attraverso il voto, gli elettori si sono scelti via via le più diverse “aristocrazie”, e la qualità della vita di cui godiamo è sotto gli occhi di tutti.
In realtà alcuni strumenti ci sarebbero, e ci sono anche persone – che non sono dichiaratamente indipendentisti veneti – che si sono impegnate da oltre un decennio per ottenerli in forma non edulcorata. Ma altri veneti, appartenenti alla “aristocrazia” dei partiti li rifiutano e li depotenziano. E qui, a titolo d’esempio, riportiamo l’esperienza del Comune di Vicenza; ma si tratta di un’esperienza fatta anche a Bologna, ad Alessandria, a Pistoia ed altrove.
Il 6 maggio 2015, Annamaria Macripò, coordinatrice del Comitato Più Democrazia e Partecipazione, scrive ne «I Mutanti Della Democrazia»:
«Il Comitato Più Democrazia e Partecipazione di Vicenza aveva festeggiato già due anni fa, quando, a otto anni di distanza dal referendum comunale del 2006, che aveva richiesto l’inserimento dei referendum propositivi e abrogativi nello Statuto comunale (fu il primo referendum comunale vicentino e il primo in Italia a chiedere questi strumenti ‘dal basso’), l’amministrazione guidata dal sindaco Achille Variati approvò il nuovo Statuto comunale con i suddetti referendum a quorum zero.
Un incredibile successo per il comitato, che in tutti quegli anni non aveva mai smesso di credere nell’obiettivo da raggiungere, e un punto d’orgoglio per l’amministrazione cittadina che poteva fregiarsi del titolo di ‘prima città capoluogo de-quorumizzata d’Italia’!
Ci sono poi voluti altri due anni affinché quello che era stato conquistato a fatica sulla carta diventasse effettivo; sì, perché il Regolamento degli Istituti di Partecipazione, il corrispettivo di un decreto attuativo, è stato approvato solo ieri, 5 maggio 2015.
Un totale di circa 10 anni per consegnare alla cittadinanza il diritto di partecipare attivamente.
I festeggiamenti riprendono, quindi, anche se in tono più pacato perché certamente in quest’ultima fase si poteva fare di meglio.
Ci tacciano di ‘incontentabili’. Sì, il Comitato Più Democrazia e Partecipazione non è facile a concedere elogi e anche in questo caso non si smentisce. Ma si tratta tutto sommato di rimanere fedeli al principio di realtà.
È vero, ora i cittadini di Vicenza possono costituirsi in comitato referendario e attivare questi strumenti di democrazia diretta: il referendum propositivo, che dà agli elettori la possibilità di esprimere la loro creatività politica proponendo un atto amministrativo da sottoporre al voto dei propri concittadini (in genere una tematica riguardante il bene comune che l’amministrazione per vari motivi non ha affrontato), e il referendum abrogativo che va a cassare un atto approvato dal Consiglio comunale o dalla Giunta.
Però, e c’è più di un però…
Questi diritti e strumenti referendari che, vale la pena di ricordare, sono previsti dalla Costituzione, sono praticabili solo ed esclusivamente in presenza di regole di applicazione semplici e soprattutto che non contengano percorsi a ostacoli. E questo purtroppo non si può certo dire che sia una caratteristica del Regolamento approvato ieri dal Consiglio comunale vicentino.
Nel momento in cui si adottano strumenti referendari vanno presi in considerazione una serie di fattori importanti quali la valutazione di ammissibilità, i tempi e le modalità di raccolta delle firme, l’informazione, l’agenda delle votazioni referendarie.
Sono le regole di applicazione che definiscono una democrazia diretta compiuta.
Ecco a Vicenza, la sensazione è che si sia persa l’occasione per ottenere il ‘bollino di qualità’ della democrazia diretta cittadina visto che:
- il cosiddetto ‘collegio degli esperti’ che valuta l’ammissibilità del quesito in questo caso sarà formato da tre soli membri: il segretario comunale, un membro nominato dalla maggioranza e uno dalla minoranza. È evidente l’inopportunità di tale decisione dato che gli ‘arbitri’ non dovrebbero essere scelti dagli amministratori che sono una delle parti in causa (l’altra è il comitato referendario). In questo caso non sono garantiti i criteri minimi di terzietà dell’organo stesso che con tale composizione difficilmente sarà immune da influenze politiche.
- il tempo per la raccolta delle firme (che, ricordiamo, serve anche a fare informazione e avviare il dibattito sul quesito referendario e non è a carico del comune) è stato ridotto al lumicino, ovvero 90 giorni per raccogliere 5000 firme autenticate (pari al 5,7% della popolazione avente diritto al voto) contro i 150 richiesti dal Comitato, tenuto anche conto che il precedente Regolamento ne prevedeva 90 per la raccolta di 4000 firma – mille in meno! Invece, in Trentino, regione all’avanguardia sull’argomento, si registra una tendenza all’ampliamento di queste tempistiche.
- Come motivazione per tale drastica riduzione dei tempi è stata addotta la necessità di creare un “meccanismo sfidante”, con le parole del vice-sindaco Bulgarini. Peccato però che sia stata mal interpretata sia la funzione di questo periodo di raccolta sia questa presunta ‘competizione’ che non ha un avversario da battere, se non il tempo. Ma qui non si tratta di una gara a cronometro, bensì di democrazia diretta effettivamente praticabile.
l’informazione: pilastro essenziale dei referendum e della democrazia.
- L’Amministrazione vicentina ha cassato la norma che prevedeva l’invio di un opuscolo informativo contenente una chiara illustrazione del quesito e delle ragioni del SÌ e del NO. La Giunta non ha addotto adeguate motivazioni a sostegno del taglio se non una vaga allusione ai costi. Ma si sa, la democrazia costa solo quando è a favore del cittadino!
- l’agenda delle votazioni referendarie a Vicenza è stabilita come da Statuto: esse possono svolgersi solo in concomitanza con altre elezioni nazionali, regionali, europee e referendum popolari nazionali. Dunque già in presenza di un’agenda ‘penalizzante’, si è voluto aggiungere un limite ulteriore: l’iter referendario previsto prima del voto deve essere completato positivamente entro 60 giorni dalla data delle votazioni, altrimenti si passa alla tornata successiva, ovvero, il referendum verrà celebrato a distanza di due-tre anni o forse più dalla raccolta firme con conseguente allontanamento dell’attualità della proposta e ulteriore e sfiancante campagna referendaria per il comitato promotore. Per questo sono state addotte motivazioni organizzative, facendo passare una norma a rischio di legittimità.
- Tutti questi paletti, inseriti in extremis dalla Giunta, snaturando i risultati raggiunti dopo un anno di lavoro dalla 1a Commissione, hanno lo scopo, dichiarato, di fungere da ‘compensazione’ per il ‘quorum zero’, come a dire: i cittadini hanno ottenuto, sì, l’ambito spazio partecipativo dato dalla mancanza di quorum per la validità dei referendum (decide chi partecipa), ma noi, Amministrazione, tuteliamo le nostre posizioni di potere e rendiamo l’attivazione dei referendum (già in qualche modo arginati dalle materie escluse o ‘non referendabili’ – art. 29 dello Statuto) un percorso a ostacoli che farà del lavoro dei comitati promotori un’impresa al limite delle possibilità; come se i cittadini dovessero ‘pagare pegno’ per attivare il proprio diritto decisionale. Uno scivolone imperdonabile, questo, che rende lecito il sospetto che all’Amministrazione ‘illuminata’ di due anni fa, quella che ha concesso il quorum zero, sostanzialmente la stessa di oggi, si sia bruciata qualche lampadina di troppo.»
Ecco perché noi non nutriamo alcuna fiducia in alcuni sedicenti indipendentisti, anche laddove siedono nelle istituzioni italiane. È chiaro che la frequentazione di tali compagnie appare deviante sulla realtà dell’esercizio dei diritti inalienabili, perché naturali. Non essendo noto l’ordinamento istituzionale dell’agognato Veneto indipendente, ed essendo la “cultura politica” di alcuni autorevoli esponenti dell’indipendentismo veneto un bagaglio acquisito nelle istituzioni italiane, tutto ci rende malinconicamente diffidenti e sfiduciati.
Ha scritto Paolo Spoladore, [La verità libera. Riflessioni sul Vangelo, Noventa (PD) 2004, pp. 158-59]: «Ha più sale in zucca un popolo che paga per vedere giocare della gente pagata per giocare a calcio o un popolo che riempie i campi di gioco per giocare, saltare e divertirsi di persona? Fa più luce un popolo che divide equamente le risorse tra tutti o un popolo che si lascia schiavizzare e irretire dal potere politico per rinunciare a ogni giustizia, anche la più elementare? […] Quanto sale è rimasto in zucca a un popolo che investe con entusiasmo miliardi nella casualità del lotto ed è totalmente indifferente al prosciugamento quotidiano delle tasse? […] Che sapore avrà la risata beffarda e indifferente dei ricchi e dei potenti sopra il pianto e il sangue dei poveracci ridotti al nulla e al silenzio»?