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La serenissima repubblica di venezia era uno stato democratico

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venezia1di ENZO TRENTIN

Vorremmo ripetere qui un’osservazione di Thomas Hora, spesso citata: «Per capire se stesso, l’uomo ha bisogno di essere capito dall’altro. Per essere capito dall’altro, ha bisogno di capire l’altro» (1).

Le nostre idee tradizionali sulla realtà sono illusioni che andiamo accumulando per la maggior parte della nostra vita quotidiana, anche al rischio notevole di cercar di costringere i fatti ad adattarsi alla nostra definizione della realtà, e non viceversa. Ma l’illusione più pericolosa è che esista soltanto un’unica realtà. In effetti esistono molte versioni diverse della realtà, alcune contraddittorie, ma tutte risultanti dalla comunicazione e non riflessi di verità oggettive, eterne. È necessario comprendere la portata delle forme di violenza psicologica, rendendo più difficile ai moderni fanatici dello stupro mentale e del lavaggio del cervello nonché ai sedicenti salvatori del mondo, l’esercizio del loro malvagio potere.

Che Stato bizzarro fu Venezia! Nessuna di quelle ambizioni di gloria o di conquista che prudono gli altri potentati dell’epoca, anche i più minuscoli. Nessuna traccia di fiamme ideologiche, guerre dinastiche o di religione. Mai visto un guelfo o un ghibellino! E che governo bizzarro a Venezia; mai un tiranno, mai una famiglia che si imponga durevolmente, come gli Scaligeri a Verona, o i Medici a Firenze o i Visconti a Milano. La Serenissima fu diversa. Perché? Perché fu soprattutto una “enorme” società commerciale. Incredibile? Ascoltate, signore e signori…

«Nei primi tempi di Venezia, il doge veniva eletto direttamente dall’assemblea di tutti i cittadini: il massimo della democrazia. Ma aumentando il numero di abitanti, la procedura divenne di difficilissima applicazione e pregna di disordini. La si abbandonò solo per queste ragioni pratiche. Il famoso Gran Consiglio non fu affatto “espressione di tirannide”, ma proprio il contrario. Nacque per impedire che qualche facinoroso, aizzando il popolo, conquistasse un potere assoluto. Il discorso sulla necessità di proteggere il popolo dai suoi stessi eccessi l’abbiamo sentito fare nel corso della storia dai tiranni più rinomati e dai regimi più “progressisti”, proprio coloro che poi il popolo lo fanno marciare a scariche di tortorate sul groppone.

La realtà romanzesca nel caso di Venezia è che il Gran Consiglio (agli esordi, solo un’assemblea dei cittadini più abili e responsabili) ha sempre mantenuto la promessa. Ma come? Il Doge, il Consiglio dei Dieci e tutta quella gente intabarrata, piena di mistero che canta nei melodrammi, non erano i detentori di un potere terribile e intransigente? Lo lasciavano credere. Storia per  tener calmo il colto e l’inclita di dentro e di fuori. Occhiacci per impressionare ma in realtà nessuno poteva ritenersi depositario di qualche potere a Venezia. Nessuno contava niente. Non contava la nascita, non contava la competenza, l’abilità politica, (anzi, era una nota negativa) e soprattutto non contavano gli appoggi e le amicizie, perché tutta la vita pubblica della Serenissima si svolgeva all’insegna di una sola cosa: del caso.» (2)

La complessità dei rapporti internazionali richiedeva conoscenze sempre più specifiche da coloro i quali si occupavano della cosa pubblica: da tempo si erano istituite nuove magistrature tese a soddisfare esigenze che richiedevano competenze approfondite. Consiglio dei Savi (1143), Consilium Ducis “1172”, i consiglieri ducali formano il Minor Consiglio.

dogeL’elezione del doge è stata sottratta all’Arengo, al quale rimane soltanto un diritto formale di ratifica. In città come Firenze, in cui le rivalità portavano in subitanei passaggi del potere da una fazione all’altra, lo strumento consueto per effettuare il passaggio era una assemblea generale del popolo, di cui era relativamente facile avere il favore, e che poteva essere tirata da una parte all’altra da mutamenti di umore o da intimidazioni.

Il Maggior Consiglio di Venezia, che sostituì completamente l’Assemblea popolare come organo supremo, non poteva essere così manipolato. Negli Stati italiani, il passaggio dal Comune al dispotismo della Signoria, avvenne spesso con l’aiuto dei consilii popolari i quali, nel cambio, furono i primi a rimetterci in termini di libertà ed in termini economici.

Il formarsi di sempre nuove magistrature in Venezia corrispondeva ad un parallelo ridimensionamento del potere del doge. Tra il 1207 ed il 1222 il quadro si allarga: nasce la “Quarantia”. Nel 1255 nasce il “Consiglio dei rogati (Pregadi), destinato a diventare il Senato della Repubblica. In Venezia la durata in carica nelle magistrature era molto breve, lo sarà per tutta la durata della Serenissima.

Negli anni 1261/62 vengono elette complessivamente in vari momenti quattrocentotrenta persone per mantenere permanentemente occupati i cento seggi del Maggior Consiglio. Tra gli eletti del 1261/2, che erano come abbiamo visto or ora, 242, cioè più della metà, appartengono a 27 famiglie: se si ripete la conta quattordici anni dopo gli eletti furono, in tutto, 577 la composizione non si è punto allargata. Le variazioni, alquanto modeste, sono all’interno dello stesso gruppo di famiglie. Sono sempre gli stessi nomi, vi si ritrovano tutti quelli che appaiono nelle firme del primo documento del consilium sapientium del 1143 e quasi tutti quelli che si incontrano negli atti del 1163 in poi.

Il potere è dunque cristallizzato di fatto, da almeno cento anni, nello stesso giro, abbastanza ristretto, di famiglie se non di persone. Verso la fine del secolo XIII quindi la classe politica veneziana si trova di fronte ad un problema di considerevolissima portata. Senza grandi scosse, l’assemblea popolare è stata privata dei suoi poteri decisionali già di sua spettanza e soprattutto dell’elezione del doge; il doge è stato privato via via di tutte le sue prerogative sovrane, è diventato un magistrato.

La preoccupazione principalissima alla base di questo processo è sempre quella di allontanare ad ogni costo la possibilità dell’instaurazione di una dittatura, o di una signoria, personale o familiare. D’altra parte, il potere è finito per confluire in un gruppo dirigente troppo ristretto: in pratica, lo Stato veneziano è controllato da non più di una quarantina di persone. Perciò, quando i Capi della Quarantia proponevano, nel 1286, che venisse automaticamente riconosciuto il diritto all’eleggibilità per i discendenti di coloro che avessero già fatto parte del Maggior Consiglio in passato, essi non avevano in mente l’esclusione di questa o quest’altra categoria di possibili eletti quanto, piuttosto, l’allargamento della partecipazione al Consiglio, diventata un’affaire de famille per una parte sempre più ristretta della nobiltà, e non più rispondente all’espansione economica e politica di una città di forse ottantamila abitanti, che controllava un vasto impero coloniale.

Si cercava, senza dubbio, di fare leva sulla possibilità di introdurre in consiglio persone o gruppi di persone che ne erano state via via eliminate; di allargare la partecipazione di famiglie che non erano riuscite ad introdurvi una presenza numerosa quanto quella delle casate maggiori. La proposta non fu accolta, e non lo fu, contrariamente a quanto si continua a ripetere, proprio perché prevalse l’opinione dei conservatori, di coloro che desideravano che il gioco politico non si allargasse. Lo stesso accadde dieci anni dopo: i conservatori erano rigidi nel pretendere che la meccanica elettorale rimanesse nelle loro mani.

Finalmente, il 28 febbraio 1297, il doge Pietro Gradenigo presentava con successo una nuova proposta: a titolo di esperimento, per sei mesi rinnovabili, siano ammessi al Maggior Consiglio, previo voto favorevole della Quarantia, coloro che ne hanno fatto parte dall’ultimo quadriennio in addietro; gli altri, e cioè – come fu esplicitamente spiegato più tardi – tutti i discendenti di coloro che erano stati membri del Maggior Consiglio fino al 1172, potevano essere eletti da un collegio di tre elettori, secondo il sistema consueto e sempre salva convalida da parte della Quarantia. Alla stessa prassi dovevano sottostare coloro che avevano perduto l’elezione al M.C. negli anni precedenti per essere stati assenti o essersi allontanati da Venezia.

Insomma, checché se ne dica, la Serenissima repubblica di Venezia era uno Stato democratico, e lo era ancor di più se contestualizzato nella sua era dove prevaleva l’assolutismo.

Ai giorni nostri abbiamo uno stuolo di politicanti che inneggiano alla democrazia e alla restaurazione della Repubblica del leone, ma nessuno di costoro ci spiega quali sarebbero gli odierni strumenti con cui il cosiddetto “popolo sovrano” potrà delegare una piccola parte di potere ai Mazzeirappresentanti, ed esercitare una maggiore capacità di controllo e deliberazione su quelli che – chiamateli come volete – sono in realtà i semplici delegati al governo.

Sicché (come scriveva Filippo Mazzei nel 1776) se non stiamo in guardia contro le conseguenze di tali pregiudizj mediante salutari leggi costituzionali, vedremo perpetuare alcune cospicue famiglie, e i loro congiunti clienti, e ridurre il governo sostanzialmente a un’aristocrazia e magari oligarchia insolentemente esercitata all’ombra della libertà. Per evitare quindi un tal gran male, per rendere ognuno conscio della propria importanza come membro della comunità uguale a chiunque altro nei suoi diritti naturali, per renderci più competenti in materia di leggi e più felici sotto di esse, deliberiamo:… Che le leggi fatte dai nostri rappresentanti non possono essere dette né devono essere, leggi del paese fintanto che non saranno approvate dalla maggior parte del popolo. (3)

E allora elenchiamoli gli strumenti del popolo sovrano da introdurre in tutti gli Statuti degli Enti locali, come pure in una ipotizzabile nuova Costituzione.

Essi sono principalmente:

  • Per consentire l’effettiva partecipazione dei cittadini all’attività amministrativa prevista dalle Leggi vigenti, è consentita l’indizione e l’attuazione di referendum «d’iniziativa» e «di revisione» tra la popolazione comunale in materia di esclusiva competenza locale.
    Per «iniziativa», s’intendono azioni tese ad imporre a Sindaco, Giunta e Consiglio comunale, deliberazioni su argomenti che interessano l’intera comunità. Per «revisione», s’intendono quelle deliberazioni che, già assunte dalla Amministrazione comunale, si vogliono, eventualmente, prese con differenti norme.
    In ambedue i casi: «d’iniziativa» e «di revisione» i referendum sono validi con qualsiasi numero di partecipanti al voto. Niente quorum, dunque, che del resto esiste solo in Italia, Slovenia, Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia.
  • I referendum confermativi obbligatori senza necessità di raccolta firme: per richiedere il consenso popolare affinché determinate leggi o norme costituzionali possano entrare in vigore. In pratica i “rappresentanti” non possono legiferare sul loro potere erodendolo alla sovranità popolare. Oppure per approvare una spesa pubblica superiore ad una cifra prefissata. Giusto come avviene in Svizzera. [VEDI QUI]
  • L’azione popolare di revoca, ovvero la decadenza dalla carica di Sindaco, o Presidente di circoscrizionale può essere promossa in prima istanza da qualsiasi cittadino elettore del Comune, o da chiunque altro vi abbia interesse per mezzo di una elezione di richiamo (chiamata anche referendum revocatorio o richiamo del rappresentante) che è una procedura con la quale gli elettori possono rimuovere un funzionario eletto all’ufficio pubblico attraverso una votazione diretta, prima che il suo mandato sia terminato. [VEDI QUI] La norma deve valere anche per ogni altro funzionario dell’esecutivo. Da non escludere quanto avviene in USA dove la revoca pende come una spada di Damocle sull’esecutivo di qualsiasi istituzione che riceva soldi pubblici.
  • Il Procuratore Civico
    Lo statuto comunale può prevedere l’istituzione del procuratore civico, con compiti di garanzia dell’imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione comunale, segnalando, anche di propria iniziativa, gli abusi, le disfunzioni, le carenze ed i ritardi dell’amministrazione nei confronti dei cittadini.
    2. Lo statuto disciplina l’elezione, le prerogative ed i mezzi del procuratore civico nonché i suoi rapporti con il consiglio comunale.
    3. Il procuratore civico comunale svolge altresì la funzione di controllo sugli appalti pubblici.
    4. Il procuratore civico è eletto contemporaneamente al Sindaco e Consiglieri comunali. È una carica onorifica e non onerosa.

E soprattutto non ci devono essere “rappresentanti” o “delegati” riuniti in seduta permanente, e quindi “di professione” come avviene nella civilissima e democraticissima Confederazione Helvetica. 

Qualche politicante affermerà che l’esercizio compulsivo degli strumenti sopra indicati creerà immobilismo istituzionale e qualche altra amenità. Ma è facile rintuzzare queste sciocchezze, poiché l’effettiva efficacia degli strumenti di democrazia diretta risiede nella loro deterrenza. Ad ogni politico, infatti, preme anzi tutto la sua rielezione. Se le sue Leggi o delibere sono cancellate dall’esercizio della sovranità popolare, tale rielezione diventa ardua.

L’impatto diretto dell’iniziativa popolare non deve neppure essere sopravvalutato. Nel 1996, anno top per la democrazia diretta negli USA, andarono al voto un totale di 102 referendum avviati dai cittadini in tutti gli Stati americani, mentre lo stesso anno i legislatori eletti adottarono un totale di 17.000 leggi in tutti gli Stati. (4)

* * *

NOTE:

(1) Thomas Fora, “Tao, Zen and Existential Psychotherapy”, Psychologia, 1959, p. 237.

(2) da: «Storia semiseria della Repubblica di Venezia» [VEDI QUI]

(3) Da Filippo Mazzei: «Istruzioni dei possidenti della Contea di Albemarle ai loro delegati alla Convenzione degli Stati Uniti d’America», (1776).

(4) M.D. Waters (2002), «Initiative and referendum in the United States: a primer», Washington: Citizen Lawmaker Press, pag. 6.

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