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La strana idea di concorrenza che hanno i commercialisti italiani

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di MATTEO CORSINI

L’Italia è un Paese in cui una buona fetta di popolazione passò dall’essere fascista ad antifascista (magari comunista) a regime caduto e che sull’antifascismo ha fondato il compromesso, essenzialmente tra democristiani e comunisti, sulla cui base è stata scritta la Costituzione e si è sviluppata la Repubblica.

Eppure ci sono cose del ventennio che sono rimaste pressoché intatte, tra cui lo statalismo e il corporativismo. Di qui la proliferazione e il perpetuarsi, per esempio, degli albi professionali, la cui funzione principale è ormai quella di fare lobby per cercare di difendere il proprio orto dalla concorrenza. Ovviamente il tutto in nome della garanzia sulla qualità delle prestazioni professionali a miglior tutela dei clienti.

Non mi ha stupito, pertanto, l’ennesima denuncia arrivata dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili (Cndcec), secondo cui dal monitoraggio svolto dalla Fondazione nazionale dei commercialisti, sta emergendo che il 23% dei Comuni non tiene conto delle indicazioni ricavabili dal Dm 21 dicembre 2018 che ha aggiornato i limiti massimi del compenso base spettante ai revisori.

Il problema, secondo il Cndcec, è che quel decreto non ha fissato limiti minimi, quindi i Comuni ne approfittano per pagare poco i professionisti per gli incarichi di revisione dei conti, in barba al principio dell’equo compenso, in base al quale “la pubblica amministrazione, in attuazione dei principi di trasparenza, buon andamento ed efficacia delle proprie attività, garantisce il principio dell’equo compenso in relazione alle prestazioni rese dai professionisti in esecuzione di incarichi conferiti.”

Il Cndcec arriva quindi a raccomandare ai professionisti di non accettare incarichi che prevedano compensi “manifestamente inadeguati iniqui e lesivi del decoro del professionista e del complementare interesse pubblico.”

Ora, se ci sono professionisti che accettano volontariamente incarichi a fronte di un determinato compenso, significa che ritengono preferibile svolgere un lavoro a quelle condizioni piuttosto che astenersi dal farlo. Con ogni probabilità preferirebbero un compenso maggiore, ma evidentemente non hanno la forza contrattuale per ottenerlo. Ciò generalmente si verifica quando l’offerta non è scarsa in rapporto alla domanda di un determinato servizio.

Se, come auspica il Cndcec, esistessero compensi minimi imposti per legge, con ogni probabilità un certo numero di professionisti finirebbe per non percepire neppure il compenso ritenuto indecoroso.

La morale è sempre la stessa: in Italia (e non solo) la concorrenza piace a tutti quando riguarda gli altri.

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