di PAOLO L. BERNARDINI
La Sicilia, terra da sempre priva di acqua, o con le risorse idriche gestite, storicamente, nel peggiore dei modi. Ricordo una bella giornata di primavera, il 4 aprile 1988, a Molfetta, pochi giorni dopo il compimento del mio 25° anno di età. Ero un giovane ufficiale di Marina – poco ufficiale e molto gentiluomo – e viste le mie scarse attitudini marziali, compensate dal bell’aspetto, mi mandavano a presenziare a vari di navi, di solito, per occuparmi in qualche modo. Ero di stanza a Taranto. Col mio collega e amico Nuccio – siciliano biondo – fummo mandati in missione nella romantica Molfetta al varo della nave Simeto, porta acqua.
Una delle varie navi utilizzate per questo, la funzione civile della Marina Militare già inventata da Plinio il Vecchio che utilizza la flotta imperiale per salvare le vittime dell’eruzione del Vesuvio (e muore nell’impresa). Le navi ausiliarie per il trasporto avevano e hanno nomi di fiumi, di solito, e motti simpatici, che alludono però a situazioni idriche critiche: la Basento, Navigo per sete; la Bradano (fiume di terra anch’essa arida, la Basilicata), Ubicumque per aquam navigabit; la Brenta, il più icastico: Nunc est bibendum(!). Di solito riferito al vino, ma se riferito all’acqua, semanticamente ben differente, connotativo di malesseri gravi. “Bevi vino e lasciar andar l’acqua al mulino” è detto per ricchi.
Fu l’occasione per sfoggiare la mia erudizione classica: quante vicende, divine ed umane, legate al secondo fiume della Sicilia, poco più di 100 chilometri, tutti nella provincia di Catania: quanta poesia e letteratura. Quanti luoghi bellissimi, tra le sue anse, intorno al suo letto. La città di Molfetta era giustamente orgogliosa: la nave, che ebbe lunga vita e credo navighi ancora, era stata costruita interamente da un cantiere locale, il CINET. Una nave, portata dall’acqua per definizione, era intesa per supplire le carenze d’acqua – dolce – di terre costiere, isole, e luoghi aridi. Come la Sicilia, per l’appunto. Esiste anche la possibilità – che Israele ad esempio, aridissima terra, utilizza – di desalinizzare sistematicamente l’acqua del mare. Decenni dopo, una fredda sera di ottobre 2024.
Apro la tv – cosa che faccio raramente – e guardo parte del programma di RAI3 di Salvo Sottile, “Farwest”. Ora, guardo solo la parte dedicata alla tragedia dell’acqua in alcune parti della Sicilia. Tutta una lamentazione preliminare, ovviamente, da parte di Sottile, siciliano peraltro, riguardo al cambiamento climatico, la desertificazione della Sicilia, e del mondo (!), insomma il doveroso omaggio all’ecologicamente corretto, alla peste verde che è divenuta icona della sinistra.
Tutto il servizio, con figure simpatiche di boss “acquatici” come John Pipitone, e relativa madre coraggio, tra periferie orrende d’Agrigento e paesi come Carini che sembrano tutti una periferia sola, mostra, rivela, qualcosa di allucinante, di terribile, su cui occorre riflettere. L’acqua, bene primario di certo, ma bene come gli altri, soggetto a compravendite, sembra dover essere garantito solo dallo Stato, ovvero dalle sue diramazioni nell’amministrazione locale. In assenza dello Stato, l’alternativa è la Mafia – il diavolo rispetto all’acqua santa – che ovviamente vende a caro prezzo (ma siamo sicuri sia così superiore a quello della proverbiale “acqua del sindaco”) ai poveri assetati acqua peraltro stigia, orrenda, solforosa quando va bene, ovvero tirata su da pozzi inseriti in solfatare, l’antica risorsa – o piaga, a seconda da che parte la si veda – della Sicilia. Ora, l’alternativa è Stato-Mafia (spesso, si sa, tragicamente alleati).
E’ aliena, totalmente, sia dalla coscienza e conoscenza dei giornalisti, sia da quella dei locali, l’idea che l’acqua possa essere gestita, comprata, venduta, estratta, e quant’altro, da PRIVATI, possibilmente onesti, non necessariamente mafiosi, o in ogni caso disonesti. Insomma, o John Pipitone o il Governone: tertium non datur. Ovviamente lo Stato è carente e la Mafia domina, e paradossalmente rappresenta il privato. Da quest’assenza radicata, cieca, di una nozione di un “mercato onesto” e “privato”, nascono disastri ben peggiori rispetto a quello dei poveri assetati di Carini, disastri globali. Secoli di demonizzazione del “privato” hanno portato a cotali aberrazioni. Il pregiudizio è diventato convinzione, non è neanche più riconosciuto come tale. Qualcosa di davvero tragico, se irreversibile.
Come nella canzone un tempo così famosa di Toto, “I bless the rain down in Africa…”, e quelle in Sicilia, isola africana. La Sicilia spreca l’acqua in ogni modo. Qualcosa che è abbondantemente noto. Perfino nella delirante iniziativa di coltivare il kiwi, frutto esotico certo salubre e gustoso, ma che richiede quantità d’acqua enormi. Una Sicilia indipendente cercherebbe di risolvere il problema dell’acqua in modi molto più razionali rispetto a quello che fa il governo di Roma e le sue diramazioni locali. Il disastro dell’acqua è una delle punizioni inflitte dall’abominio di un’autonomia monca, dalla mala amministrazione, dal fatto che Roma è lontana, quando s’avvicina rapace e sprezzante, e l’acqua – per ora – ce l’ha. Ma l’avrebbe anche la Sicilia.
C’è tempo, per citare la poetessa siciliana Elisabetta Salemi, per “l’ultima lacrima del fiume Simeto”. La sua ultima lacrima sarà quella che sgorgherà dagli occhi dei siciliani servi di un potere lontano, annegati dalla sua aridità.