di REDAZIONE
Pubblichiamo la Prefazione del libro di Paolo L. Bernardini, “LE ALTRUI SCALE, scritti di liberalismo classico e indipendentismo”, di prossima pubblicazione.
PREFAZIONE
Raccolgo qui i contributi apparsi sulla meritoria rivista elettronica diretta da Gianluca Marchi e Leonardo Facco, che qui ringrazio per la diuturna, generosa ospitalità […], che ha avuto il grande merito di riunire sotto lo stesso tetto scrittori, pensatori, giornalisti, politici e in genere intellettuali legati, almeno in gran parte, dagli e agli ideali indipendentistici e da quelli liberali-classici e libertari. In tal senso, si è trattato di un esperimento unico e mi pare riuscito, non ostante la sua vita relativamente breve. Giovani, e meno giovani intellettuali hanno reso ricchissima e vivace la rivista, che, attenta principalmente alle realtà italiane, ha offerto, al lettore italiano, una visione sinottica e vastissima dei movimenti indipendentistici sparsi nel mondo universo, dall’Australia agli USA passando da Asia, Africa, ed Europa: questi tre continenti limitrofi, che, riuniti parzialmente dal Mare Mediterraneo, hanno qui costituito la culla delle civiltà, e forse della civiltà, e in un certo modo continuano ad esserlo. Anche per quel che riguarda i moti di indipendenza dei popoli: dal referendum, per tanti aspetti latore di conseguenze tragiche (tali da mettere in sospetto la bontà dell’autodeterminazione dei popoli stessa), del 1791, che vide Avignone diventare «francese» e repubblicana dopo secoli di appartenenza allo Stato della Chiesa, al 9 Novembre 2014, quando in Catalogna si è celebrato un referendum per l’autodeterminazione che ha visto la schiacciante maggioranza dei catalani esprimersi a favore della creazione di una repubblica indipendente, con me il collega e amico Marco Bassani, Alessandro Storti, Masha Sancin, Alessio Morosin, e diversi giovani liberali come testimoni diretti.
In via del tutto preliminare, come spiegherò meglio nella «introduzione» che segue, devo mettere in chiaro, subito, che questi miei articoli, spesso d’occasione, non costituiscono, neanche in forma di libro, una trattazione scientifica e neppur sistematica del nesso tra indipendentismo e liberalismo, che va piuttosto scorto, o intuito, all’interno di ognuno di essi, e, naturalmente, nel complesso dell’opera, di cui pure non è thema probandum. Se dovessimo, peraltro, scendere dall’astrazione della costruzione di un sistema politico ideale, un piccolo stato leggero, uno «stato liberale», un paradosso, se vogliamo, per il pensiero libertario, che radicalmente nega ogni valore di verità, morale o ideale, allo «stato» stesso, il peggiore dei mali che sia capitato agli uomini dall’inizio del mondo, alla realtà della storia e della politica presente, vedremmo che liberalismo ed indipendentismo non sono mai stati troppo amici. Ovvero, potremmo constatare come, nella storia europea a partire almeno dalla rivoluzione francese, la maggior parte dei movimenti indipendentistici, anche e soprattutto in Italia, siano in realtà nati da statalismi di varia estrazione, siano, insomma, siano nazionalisti, o «di sinistra» piuttosto che liberali-classici, abbiano, ad esempio, elementi di repubblicanesimo se non mazziniano (Mazzini non può dirsi certo a favore delle «piccole patrie» nel suo ottuso universalismo), almeno, vagamente, «democratico». Dal momento che l’Italia unificata, e non unita, per usare la felice espressione utilizzata spesso, tra gli altri, da un liberale federalista come Francesco Ferrara, era nata ed è biecamente centralista, ed era nata monarchica, non repubblicana, lasciando nel pantheon degli sconfitti federalisti, cattolici, indipendentisti (questi ultimi di solito identificati con i «briganti» regalisti, antidemocratici, borbonici, reazionari, e appunto, cattolici), ma anche socialisti, repubblicani, comunisti – da qui i lamenti di Gramsci sulla «rivoluzione mancata» del Risorgimento, sui suoi drammi e i suoi orrori, che tutta la sinistra che si autoproclama «figlia di Gramsci» ha obliato con l’imposizione del silenzio fino ad ora – occorre vedere nell’indipendentismo «di sinistra» il figlio naturale di tale sconfitta, un prodotto «di nicchia», e di ben poco successo, incrementato, poi, a partire dal secondo dopoguerra, dalla reazione, di cui era una delle molteplici espressioni, all’ombra e onda lunga del Fascismo, che del centralismo era forse l’espressione migliore, maggiormente coerente, sia in astratto, sia in relazione alla storia italiana. Questo per quanto riguarda la riflessione sul passato, che deve sempre accompagnare ogni progetto per il futuro, e ogni riconsiderazione del «presente», dell’istante puntuale che come ben diceva Aristotele non esiste se non appunto come porta continuamente aperta e chiusa tra passato e futuro, appunto.
Se dalla considerazione del passato passiamo, per usare un felice giuoco di parole, al presente, o forse al passato solo «molto» prossimo, ovvero al 2014, osserviamo nel mondo un affermarsi, per ora tramite sconfitte, che poi del tutto sconfitte non sono, se viste in prospettiva, di sforzi indipendentistici, di delusioni e di riflessioni, che, aprendo un volume che cerca di coniugare nella trattazione indipendentismo e liberalismo, sarà doveroso menzionare, e, brevemente, commentare. In Scozia, il referendum di settembre porta alla sconfitta. Il 45% dei sì raccolti da Alex Salmond non consente ovviamente se non di sperare in una progressiva crescita tale che, entro la prossima generazione o anche prima, sperabilmente prima, si superi il 50% e la Scozia riconquisti quell’indipendenza perduta gradualmente, fino al 1707 del «Treaty of Union», che fu l’ultima tappa dell’acquisizione-annessione della Scozia da parte del Regno Unito, che da allora potrà dirsi pleno titulo tale. La vicenda scozzese, per quanto risultata in momentanea sconfitta, è stata appassionante, dal punto di vista delle sue dinamiche, e al contempo inquietante per il liberalismo, in quanto, se il principio liberale della «auto-determinazione» è stato pienamente rispettato (anche se l’opzione indipendentistica non ha vinto), nel programma di Salmond e dello SNP, un corposo «libro bianco» di oltre 600 pagine, il pensiero liberale non era particolarmente omaggiato, ed anzi era spesso, diciamolo pure, oltraggiato. Come è invisa alla maggior parte degli Scozzesi indipendentisti la figura di Margaret Thatcher. Lo SNP non è liberale, per tanti aspetti è un partito socialista, welfarista, e collettivista. Per tanti aspetti, non per tutti. Il futuro che si delineava per la Scozia era l’attrazione nel mondo baltico e scandinavo, una nuova Danimarca, una nuova Svezia, forse addirittura una nuova Finlandia se fosse stato adottato l’euro. Anche una nuova Irlanda. Ci sarà stata una porzione di liberali scozzesi che tra la Scilla del rimanere in uno stato-leviatano come il Regno Unito, dove la Scozia è certamente molto autonoma, ma anche molto marginale nel peso politico effettivo a Westminster, una colonia ricca (ma resa tale prima dall’entrata nel Regno Unito a partire dal 1707, con, a tacer d’altro, l’emergenza di Glasgow come porto principe dell’Impero, poi dalla scoperta dei vasti giacimenti petroliferi negli anni Settanta del secolo scorso), e la Cariddi di un nuovo paese pieno di cattive tentazioni, dal socialismo scandinavo all’ingresso nella zona euro, avrà scelto lo status quo, anziché la libertà, che alla fine solo in astratto (e per i puri di cuore) è sempre l’opzione preferibile? In ogni caso, e sine die, la questione dell’indipendenza scozzese è rinviata. In questa battaglia, è stato bello vedere intellettuali e storici impegnati ora da una parte, ora dall’altra, alla recente accusa di una «invenzione della Scozia» da parte del decano della categoria in Gran Bretagna, scomparso da non molto, Hugh Trevor-Roper, hanno risposto storici di ogni scuola e provenienza, e, civilmente, economisti e scienziati politici si sono confrontati sulle (epocali) conseguenze di una indipendenza, nel bene, e nel male. Alcuni, come il grandissimo Tom Devine, hanno mantenuto posizioni equilibrate e civili. Duole constatare che la civiltà della «conversazione» e della libertà da tempo si sia trasferita dalle sponde mediterranee a quelle atlantiche.
Se dalla Scozia però, dove pure il principio sacrosanto di autodeterminazione dei popoli è stato pienamente rispettato, passiamo a quel Mediterraneo che è (stato) culla di ogni civiltà, come tra gli altri scrisse Hegel nelle sue Lezioni di filosofia della storia – personalità certo non sospetta di liberalismo, ma a cui è stata attribuita ex-post l’idea singolare che fosse la Prussia, e non il Mare Nostrum, il principio di ogni civiltà – vediamo un panorama quanto mai mosso nel 2014. Il culmine di tale movimento, il referendum del 9 novembre. Che ha visto la stragrande maggioranza dei catalani votare il fatidico «doppio sì», sì alla costituzione della Catalogna come stato, e sì alla sua (quasi) conseguente indipendenza. Lieto di averlo vissuto, con Marco Bassani e due giovani liberali doc Tommaso Cabrini e Nicolò Petrali, in prima persona, come «observador internacional» della ICEC, «International Commission of European Citizens». Il referendum scozzese l’ho vissuto in diretta «online» da Astana, Kazakhstan, con una scozzese, Louise Blakemore, che allora insegnava nella medesima università in cui ero ospite, e che, come molti suoi connazionali, era molto incerta sul come avrebbe effettivamente votato, se si fosse trovata in patria. Vedere un popolo che quasi all’unisono si esprimeva a favore della propria indipendenza è stata esperienza emozionante, tra Barcellona, Badalona, e una serie di piccoli paesi limitrofi. All’apertura dei seggi a Badalona, alle 9 del mattino, c’era già una file composta e allegra di catalani, entusiasti, e mi pareva di respirare nell’aria l’ebbrezza della libertà, con un vago sentore di anice, poiché ad un passo vi erano i grandi, storici stabilimenti del famoso liquore, ad un passo dal mare. Quel mare dove per secoli si sono battuti, nelle guerre vere e in quelle commerciali, veneziani, genovesi, catalani, saraceni, e finché nell’Ottocento non è diventato tutto un mare inglese, occasionalmente insidiato da italiani e francesi. Tutto molto bello, vedremo ora – e sto scrivendo queste righe nel marzo 2015 – come si procederà verso l’effettività dell’indipendenza. Artur Mas lo sta spiegando alla Columbia University. Ma certamente anche qui si tratta, ampiamente, di un indipendentismo non liberale, legato ad ideali socialisti, collettivisti, a volte ampiamente comunisti, con feste augurali dove campeggiava, il giorno prima del referendum, l’immagine di Che Guevara, come ebbe modo di raccontarmi la mia cara amica liberale, ed indipendentista, o indipendentista (ma) liberale, Masha Sancin. Anch’essa presente, anch’ella osservatrice internazionale (ma brogli, violenze, pressioni, irregolarità, val la pena di ribadire, ancorché solo parenteticamente, non ne abbiamo proprio visti, in vero). Siamo dunque anche in questo caso in presenza di un indipendentismo che, en faute de mieux, potremmo definire «di sinistra», cosa che in una Catalogna oppressa immensamente da Franco per quasi quaranta anni, ha il suo perché, storico, su cui occorre ampiamente riflettere: per riportare la situazione alla storia italiana, quanta ansia di autogoverno, e di «sinistra» non v’era forse nelle piccole, effimere «repubbliche partigiane», ora ristudiate come esempio interessante di autogoverno «italiano» in un recentissimo volume?
Se dalla Catalogna poi passiamo alla Sardegna – passaggio diretto che la Storia ampiamente autorizza, vista la presenza diuturna, secolare, del dominio aragonese in una Sardegna medievale e parzialmente moderna che è il prototipo dell’Italia in quanto a divisioni e lotte intestine, riprodotte in scala geografica minore e in un patchwork territoriale di statualità e domini che comprendeva feudi privati dei Doria e altri genovesi, possessioni pisane, regni autoctoni e stranieri, e via dicendo, in un contesto bellicoso ma culturamente assai più ricco della Sardegna «unificata» dai Savoia, il Regno che vive dal 1720 in poi una storia di marginalità – se dunque ci spostiamo in uno dei vari assi storici del Mediterraneo occidentale, da Nord a Sud, abbiamo il caso dell’indipendentismo sardo. Alle elezioni regionali, nella primavera 2014, Michela Murgia e il suo «Progres» hanno ottenuto il 10%. In una campagna elettorale ove peraltro la parola «indipendenza» non figurava in un sofisticato programma di «acculturazione alla libertà» del sardo. Il quale però ha preferito votare «a sinistra», ma non la sinistra ecosostenibile, moderna, sofisticata e «intellettuale» di Michela Murgia – dove la libertà, ovvero l’indipendenza, assumeva un aspetto quasi millenaristico, situata alla maturità dei tempi, insomma, quando tutti gli ebrei si saranno convertiti al Cristianesimo, e i sardi all’indipendentismo – ma la sinistra vicina a Renzi di Francesco Pigliaru, il quale ha messo su peraltro una giunta di eccellenti intellettuali, una vera e propria «junta di professori universitari» alla prese con una Sardegna in caduta libera, ora, per reddito pro capite, davvero pareggiata a quel «Meridione» dove mai, per varie ragioni, ha voluto appartenere o sentito di appartenere. Non ostante il 10%, per statuto «Progres» non ha rappresentanti in consiglio regionale – un bello smacco per la democrazia – e dunque per ora la questione, antichissima, dell’indipendenza sarda pare rinviata, anch’essa sine die. Rimane naturalmente aperta la questione: se Michela Murgia – una scrittrice intelligente e fine, soprattutto quando parla della propria Terra che evidentemente ama e valorizza ad ogni pagina con sincera originalità – avesse menzionata esplicitamente l’indipendenza nel proprio programma, e nella propria campagna elettorale, il risultato sarebbe stato diverso? Inoltre, e di nuovo, «Progres» non è movimento liberale. Presenta affinità inquietanti con il Movimento 5 stelle, con Beppe Grillo, con una sinistra sinistramente innamorata di fandonie talmente grossolane che hanno bisogno della «intelligenza» francese alla Latouche per essere dotate di una certa attrattività, come la «decrescita felice», che è anzitutto, come il pensiero debole italiano di decenni fa, un’ammissione della sconfitta del pensiero stesso dinanzi alla realtà. In fondo ci volevano Althusser, Sartre e gentile signora per rendere accettabili gli orrori del comunismo, filosofastri loro eredi per rendere accettabile l’intervento in Libia (dove peraltro, per rimanere in ambito mediterraneo, chissà che non si arrivi ad una tripartizione del tormentato territorio libico, invenzione italiana, e l’autodeterminazione almeno lì trionfi). Comunque, né in Scozia, né in Catalogna, né in Sardegna, indipendentismo fa rima con liberalismo, ed è bene riflettere profondamente su questo.
Vi sono altre realtà da tenere in considerazione. L’Ucraina, naturalmente, con la nascita tormentata di due repubbliche, Donetsk e Luhansk, ora apparentemente federate, e il passaggio, attraverso referendum per la «autodeterminazione» della Crimea alla Russia. Il referendum della Crimea, territorio legato all’Italia dall’alto medioevo, dai tempi della colonizzazione mercantile di genovesi (soprattutto) e veneziani, e ove vivono ancora oltre 200 italiani (più o meno dimenticati da Roma), ricorda quello di Avignone del 1791. Non era infatti prevista, in entrambi, una «terza» opzione: ovvero quella dell’assoluta indipendenza. Agli avignonesi era posta la scelta del Papa o di Parigi, agli abitanti della penisola sul Mar Nero, quella tra lo status quo e il passaggio alla Russia. Autodeterminazione parziale? Il panorama, in ogni caso, è molto mosso.
La questione veneta è aperta. Nel marzo 2014 si è celebrato il referendum elettronico promosso da Gianluca Busato. Una grandissima mossa, e una fondamentale innovazione nel cammino dei popoli verso l’autodeterminazione. L’uso del voto elettronico, in Estonia ad esempio già comune, sarà la vera innovazione che determinerà il ritorno alla democrazia diretta in tempi relativamente brevi. Di questo referendum ha dato ampia eco, come doveroso, la stampa internazionale. Il problema in questo caso si è posto nella certificazione del numero effettivo dei voti, attraverso procedure mai definitivamente rese pubbliche, per cui rimane non del tutto chiarito, al momento, quanti veneti si siano effettivamente espressi a favore dell’indipendenza: certamente la maggioranza, ma si è trattato davvero degli oltre 2 milioni di cui hanno parlato gli organizzatori? Forse, il problema è stato quello che non si prospettava un’affluenza così alta, e dunque non ci si era posto all’inizio il problema della certificazione successiva dei voti. Da qui il sospetto che le cifre siano state gonfiate. Ora, vari sondaggi «ufficiali» indicano come la maggioranza dei veneti, nel 2014, sarebbe a favore dell’indipendenza, e questa situazione si può immaginare non sia cambiata nei primi mesi del 2015 (sondaggi ufficiali parlano del 58%). Alla elezioni regionali di maggio 2015 vi saranno due o tre formazioni indipendentistiche – quella maggiormente accreditata è «Indipendenza veneta» di Alessio Morosin – mentre occorre dire che vi è una legge regionale, la legge 16, che indice formalmente un referendum consultivo, un grande trionfo personale di Alessio Morosin stesso – e dunque vedremo quale sarà la risposta degli elettori. Naturalmente si presenteranno altre liste, pare, con lo stesso Gianluca Busato in prima fila.
Per concludere. Gli scritti qui raccolti sono stati modificati, a volte molto, a volte pochissimo, rispetto alla loro prima pubblicazione. Soprattutto sono stati purgati da quelle punte di acidità, provocazione, e dallo stile «giornalistico» che deve essere proprio del breve testo «engagé». Pubblico questo libro nella speranza che le formazioni indipendentistiche chiariscono in senso liberale i loro programmi, o, nel caso del Veneto, tali programmi pubblichino in fretta, corposi e convincenti, come corposo e convincente, anche se poco liberale, è stato ed è il «libro bianco» scozzese. Alcuni scritti sono stati redatti in Kazakhstan, dove mi sono fermato alcuni mesi nel 2012, altri in Italia o altrove. Sono raccolti cronologicamente, e divisi in due parti, quelli del 2012, e quelli del 2013. Le cose in politica e in generale nella storia cambiano rapidamente, anzi, a partire dalla rivoluzione francese, o se preferite dalla guerra d’indipendenza americana, sempre più rapidamente. Ho fatto lo sforzo di emendare quelle parti improvvisamente invecchiate, ma inevitabilmente gli eventi potrebbero far invecchiare rapidamente questo stesso libro in molte sue componenti. Certamente, non il legame fragile che cerco di istituire tra liberalismo (una ideologia, una visione del mondo, una dottrina economica) e indipendentismo (una tensione politica, un ideale collettivo, una fase storica dei popoli), cercando di precisare, nella «introduzione» che segue, le distinzioni, e le affinità, tra due concetti che appartengono a dimensioni logiche, e forse ontologiche, differenti. Sono, come ci si renderà conto subito, scritti eterogenei – inizio con un breve reportage kazaco – legati da un fil rouge che occorre ogni volta di nuovo rintracciare, non auto-evidente. Per questo, più che soddisfare la curiosità, spesso, credo, la stimoleranno. Nel licenziare il volume per le stampe, ringrazio innanzi tutto l’editore, Michele Liati, estremamente sensibile a questa «strana» e forse «tragica» coppia, liberalismo e indipendentismo. Ringrazio poi i miei studenti di Como, dell’Università dell’Insubria, che pongono sempre tante domande, cui difficilmente riesco a rispondere, in molti casi. E che in molti vorrebbero un mondo senza stati, né piccoli né grandi.
Ringrazio poi tutti gli amici liberali classici e libertari che mi accompagnano in questo percorso, «maestri e compagni», come si suole dire, sia che aderiscano all’idea indipendentistica, sia che credano ancora che sia possibile porre in essere politiche liberali nella compagine statuale attuale, senza frammentarla in venti o meno nuovi microstati, poi liberi certamente di federarsi tra di loro. Un ringraziamento particolare ai miei allievi, e ora colleghi, Diego Lucci (American University in Bulgaria), Elisa Bianco (Università dell’Insubria-Como), e Luigi Robuschi (University of Witwatersrand) per la loro costante attenzione critica. Se sono tempi difficili per l’indipendentismo, lo sono anche per il liberalismo, nell’orgia di sogni e incubi collettivistici che, almeno in parte dell’Europa statalista, centralista, liberticida, accompagna la miseria crescente, dove essa cresce (non in tutto il mondo, dove anzi è il benessere, spesso, a ritornare e trionfare). Cresce l’insana smania di ridistribuzione delle ricchezze, quando sono sempre meno le ricchezze da (ri)distribuire.
di Paolo L. Bernardini – Libreria San Giorgio