Al di là degli esiti delle consultazioni sulla secessione di Scozia e Catalogna, questi eventi impongono una riflessione che faccia luce sugli evidenti cambiamenti all’interno dell’istituto della secessione.
Cambiamenti che si arricchiscono di senso se letti alla luce del contesto europeo in cui l’esperienza scozzese e catalana sono inserite, ma che più in generale possono essere ricondotti a ragioni geo-politiche che esulano dall’ambito dell’Unione.
Dibattito attorno all’indipendentismo scozzese e catalano
Il dibattito dottrinale, ma anche politico, che è andato alimentandosi attorno alle iniziative indipendentiste nel Regno Unito e in Spagna è infatti la plastica rappresentazione di un modo nuovo di intendere la secessione, ben delineato nel 1998 dalla Corte Suprema canadese, invitata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale di un’eventuale secessione del Quebec dalla federazione.
Al di là delle indicazioni minute, ciò che è rilevante ai fini delle nostre brevi note è l’intenzione del Giudice canadese di formalizzare un percorso, che ha trovato successivamente avallo anche in ambito internazionale, in grado di condurre alla separazione di una porzione di territorio nazionale attraverso un percorso istituzionale predefinito a priori, anche quando il diritto alla secessione non sia espressamente previsto in Costituzione.
A partire dalla pronuncia canadese (Reference re Secession of Quebec [1998] 2 S.C.R. 217) si è assistito, così, al tentativo di procedere al progressivo addomesticamento di un evento extra ordinem quale la secessione.
Per arginare la forza dirompente delle rivendicazioni di indipendenza il diritto, attraverso la giurisprudenza costituzionale, ha tentato di intervenire, quasi clandestinamente, insinuandosi in uno spazio che è pre-giuridico, al fine di codificare un processo costituente, introducendo un’inconsueta categoria di secessione, quella negoziata, che va ad affiancarsi a quella unilaterale, espressione di un atto sovrano originario.
Divisione piuttosto che secessione
Evidenti le ricadute concettuali: la stessa terminologia cambia, sino a condizionare il ricorso a una categoria classica come quella di autodeterminazione dei popoli, al cui uso pare essere preferito, quello di “diritto a decidere”, più neutro e soprattutto elaborato ex novo e, dunque, non riconducibile ad altre esperienze geograficamente e storicamente connotate, come nel caso della decolonizzazione.
Un restyling concettuale e un maquillage linguistico che puntano insomma ad attutire gli effetti della secessione, rendendola un atto giuridico costituito prima che costituente. Una rivisitazione dell’istituto che si è spinta sino a ipotizzare la progressiva sostituzione del vocabolo secessione, il cui etimo rimanda a un atto unilaterale di allontanamento e separazione, con quello, a esempio, di divisione, che parrebbe rinviare ad un processo di ripartizione secondo regole predefinite.
Attraverso il ricorso a un concetto originale, quello di diritto a decidere, che nuovo non è dal punto di vista sostanziale, si giunge persino a ipotizzare il consolidamento di una nuova opzione di secessione teoricamente sopportabile da parte del diritto internazionale: quella riconducibile alle aspettative di quei popoli che, non avendo vissuto un passato caratterizzato da dipendenza coloniale ritengono di aver diritto a godere di piena indipendenza costituendosi in Stato.
È in questa prospettiva che devono essere letti i casi scozzese e catalano, che, come quello del Quebec, si collocano in un contesto di democrazia consolidata e dunque non paiono poter essere riconducibili ai paradigmi del diritto internazionale.
Euro-sciovinismo
Ma c’è di più.
Il fatto che tanto i movimenti indipendentisti scozzese e catalano abbiamo manifestato un rilevante euro-sciovinismo caratterizzato dal desiderio di permanere all’interno del progetto europeo (resta da capire se per sincero spirito europeista o strategicamente, al fine di arginare i rischi cui un piccolo Stato incorre confrontandosi con una dimensione globalizzata).
Che i moti indipendentisti abbiano preso piede soprattutto in corrispondenza di territori economicamente forti, al di là del cliché del popolo oppresso che aspira all’autogoverno.
Che evitando di emettere pareri preventivi, si sia lasciato intendere che una secessione concordata potrebbe condurre al successivo riconoscimento del nuovo Stato da parte delle istituzioni europee, aprendo la strada alla richiesta di ammissione all’Unione europea.
Tutto ciò porta a porsi alcuni interrogativi.
L’Unione può ancora dirsi indifferente all’eventuale evolversi di processi di secessione in seno al suo territorio? Quali effetti possono causare tali processi di secessione, quando concordati? Possono davvero essere assorbiti dall’Unione senza determinare conseguenze implosive sulla sua tenuta?
Non si tratterebbe, infatti, di definire il rapporto fra Unione e secessione in termini di legittimità quanto piuttosto di valutare in pratica la compatibilità delle prospettive che la categoria della secessione concordata apre rispetto alla filosofia che anima il progetto di integrazione europea.
di Anna Mastromarino è ricercatrice di Diritto pubblico comparato, Università di Torino.