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Le supercazzole di Savona quando parla di criptovalute

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di MATTEO CORSINI

Da alcuni anni Paolo Savona, presidente della Consob, auspica una regolamentazione che di fatto metta al bando le criptovlaute. A suo parere le monete digitali devono essere emesse e regolamentate dalle banche centrali. Savona utilizza spesso argomentazioni non perfettamente chiare, che a prima vista possono talvolta sembrare supercazzole tali da competere con quelle del conte Mascetti.

Per esempio, in una sua recente intervista sul tema, riferendosi alla proliferazione delle criptovalute, ha affermato che le “piattaforme di trasformazione… stanno usando le criptocurrency per fare i contratti derivati come collateral cioè un qualcosa che non esiste e che diventa garanzia di qualcosa che esiste o non esiste se il collateral si fa sulle criptovlaute. Capisco che sia un meccanismo complesso, ma è importante considerare che il mercato è sempre intelligentissimo e capace di sfruttare la situazione”.

A me pare una farneticazione, ma potrei avere dei limiti nel capire. Le criptovalute possono essere sia sottostante che collaterale di contratti derivati, al pari della altre valute. E’ evidente che non tutti capiscono il funzionamento dei derivati e che sarebbe bene che chi non li conosce ne stesse alla larga, ma non vedo per quale motivo proibirne l’utilizzo a tutti quanti.

Poco prima, riferendosi a Bitcoin e al limite massimo nella sua creazione, Savona tira in ballo addirittura l’equità distributiva: “Le limitazioni nella creazione di questi strumenti è legata all’ampio uso dell’energia che si fa e quindi c’è un costo da pagare e non tutti sono in rado di affrontare. Ma per chi è in grado di affrontarle, crea un potere d’acquisto con cui compete sul mercato alterando l’equità distributiva e anche l’equità di comportamento”.

Anche in questo caso, probabilmente mi sfugge qualcosa, ma mi pare che il mining di Bitcoin non sia l’unica attività che comporta l’investimento di risorse da parte di chi la intraprende. E che non tutti abbiano o possano reperire le risorse per intraprendere quell’attività non mi sembra la renda diversa dalla generalità delle attività imprenditoriali, seppure l’intensitrà di capitale vari da settore a settore.

Il tutto senza voler tirare in ballo l’effetto Cantillon che caratterizza i sistemi di creazione di moneta istituzionali, a proposito di equità distributiva. Ma per Savona siamo addirittura di fronte ad attività da falsari: “Sulla base della legislazione vigente, la mia affermazione meditata ma esitante è che siamo di fronte a una forma di falsificazione della moneta sovrana degli Stati, che risponde alle esigenze di tutela della democrazia e di tutela del risparmio”.

Uno sguardo a quanto avvenuto nel corso dei secoli dovrebbe rendere chiaro che i primi falsari sono stati proprio i sovrani (su tutti, consiglierei la lettura di “What has Government done to our Money?” di Murray Rothbard, tradotto in italiano in “Lo Stato Falsario”, Leonardo Facco Editore).

Ciò detto, per parlare di falsificazione occorrerebbe che le criptovalute fossero immesse sul mercato con la denominazione di valute sovrane. Questo non è il caso, neppure con riferimento alle cosiddette stablecoins, che ambiscono a mantenere un rapporto 1:1 con una moneta sovrana o un paniere di monete sovrane mediante la costituzione di riserve in asset denominati in tali valute.

Qui andrebbe discusso il loro essere null’altro che, nella migliore delle ipotesi, sostituti di monete fiat, peraltro su base totalmente fiduciaria. Però anche le stablecoins non sono emesse con la stessa denominazione delle valute sovrane. Quindi parlare di falsificazione di queste ultime non ha senso in via generale. Ovviamente si sarebbe di fronte a una truffa se le riserve non fossero capienti, ciò che può capitare.

Ma quello della riserva frazionaria è un problema antico, che le banche hanno sempre praticato e che la creazione delle banche centrali ha, di fatto, istituzionalizzato e regolamentato.

In ultima analisi, quindi, il problema non è la falsificazione, né l’equità distributiva, bensì il rischio che Stati e banche centrali perdano il controllo dei sistemi monetari. Almeno lo si dicesse chiramente.

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